Ricordi di una telegrafista – 6

— Assassino! — ho risposto sordamente. E non era anche l’assassino della mia vita?!

Gli inglesi tosto si sono eclissati: soffrivano nella simulazione. Viceversa io mi divertivo per una gioia selvaggia — quella di veder Roberto soffrire, per gli omaggi che ricevevo da tutti. Soffri, soffri! Tanto piacere!

Stamane, per scuotermi del malessere che mi dà una notte insonne, ho fatto un bagno freddissimo e profumatissimo. Mi muovevo e guizzavo nell’acqua come un’anguilla.

Totillo, disceso dalla sua colonnetta, è venuto a vedermi da vicino, facendomi intorno un chiacchierio che certo equivaleva a qualche complimento. Io gli mandavo spruzzatine d’acqua colla punta delle dita, ed egli a gridare: — Marina! Marina! Marina! — Ho dovuto fargli una carezza, e quegli occhietti grossi, tondi, fissi sopra di me… mi hanno un po’ confusa, come che quella bestiola mia, avesse uno sguardo umano e… mi vedesse e mi desiderasse, e dovessi velarmi agli occhi suoi!

Poi hanno suonato alla mia porta ed una voce grossa diceva: Posta, posta! Sono balzata dall’acqua, semiravvolta nell’accappatoio da bagno, come che rappresentassi Frine innanzi ai giudici, ed ho aperto, appena tanto, da lasciare passare una lettera.

La mia carne arrossata dal freddo, ha avuto un lungo brivido come di raccapriccio, e tutta la peluria si è eretta come fosse in preda a certa febbre detta l’orripilazione!… Quella lettera, che tenevo nelle mani, sentivo che era un nuovo dolore e mi faceva trasalire.

Tremante, seduta sulla mia vasca, ho rotto la enveloppe… ho guardato la firma… Erano poche righe, ma mi sembravano lettere d’inferno e che mi scottassero le mani!

Era del Banchiere! Ho subito capito quel laconico e minaccioso messaggio! «La S. V. è pregata di visitare un’Esposizione di quadri in via… n.ro… alle 17 precise. Ne va del suo interesse. La Rosa».

La Rosa è la famosa grotta! Ah, la mia Signoria non vorrebbe saperne, signor Banchiere! Ma poi, ma poi… che si cela tra riga e riga? Ho lasciato cadere l’accappatoio, e mi sono buttata nuovamente nell’acqua diaccia… ed ho pensato a… Marad … A Marat assassinato nel bagno… Oh, era bene un pugnale acuminato anche per me quella letterina d’invito agrodolce! Però io non ho reclinato il capo privo di vita… Oh, no! no! Ho fatto un poco di ginnastica, scuotendo le braccia in tutte le maniere, come un fantoccio di legno tirato da fili invisibili.., finché ho sentito un certo benessere, una corrente d’aria tiepida sotto la mia epidermide… cioè il mio sangue che scorreva gagliardo ed impetuoso, quasi volesse sgorgare dai miei pori come tanti piccoli rubini scintillanti come quelli dei miei piedi nei pollici, così robusto e saldo… Al pari di quelle gemme! Allora mi sono asciugata lentamente, facendomi un pochino di massaggio, poi tutta incipriata per togliermi l’umidità completamente, mi sono coperta con un bel panno di lana morbida, rotolandomi in quello, mentre mormoravo: — Debbo, non debbo andare?! — Ah, sono come un misero naufrago sbattuto da un’onda sopra un’isoletta sconosciuta… Che vuole, che vuole codesto Banchiere?! — Mi ha preso una rabbia feroce, e col mio piccolo pugno ho colpito l’abito di voile glauco, come che esso fosse il colpevole, e l’ho strappato, lacerato, con le unghie e coi denti, poi ho calpestato coi piedi la bella sortie de bal, ballandovi sopra furiosamente: e così col rimanente frutto della mia posa di modella… Solamente le perle sono rimaste salve… Non ho avuto cuore di schiacciarle… Quei loro corpicciuoli candidi, dai baleni sottili, mi affascinavano e disarmavano… Pareva si difendessero con quei bagliori strani… e mi parlassero dei meravigliosi abissi del mare: di quel Regno incantato di cui io non potevo toccarne i sudditi misteriosi… Bisogna che vada! Bisogna che sappia che debbo temere, bisogna che abbia la forza di lottare! Ah, proprio ora che sono tanto angosciata, proprio ora viene a galla cotesto altro mio sdrucciolo?! Se si potesse tornare indietro: Ma era cieca, ubbriaca di vanità… Come ho potuto io… co-sí fiera… piegarmi ad un atto tanto spregevole? E tutto per brillare, per vincere Roberto.

Roberto! … L’assassino che ho respinto, che debbo respingere da che ho conosciuto l’infamia. Ed io sono stata.., come sua sposa una seconda volta… Ah, quale castigo! Quale castigo! Mi sento schiantata come in quell’ora, là… al Castello.., dopo la voluttà; dopo la tremenda rivelazione! E la mia fuga nella notte, il mio spavento al Crocevia dei Rossi…

Poi mi sono pettinata innanzi al mio grande specchio; lentamente, muovendo tutto quell’oro a stento, con fatica, ed anche con rabbia… soprattutto irritata contro di me!

È nuvolo, nebbioso, umidiccio. Una giornata bieca come i miei pensieri. Me ne compiaccio. Se era sereno, mi irritavo maggiormente… Un soldato del 30 Genio telegrafisti, che lavora con altri tre suoi compagni nel nostro ufficio, mi viene a surrogare alle 16,20. Già sono accese le lampade. Corro a casa per cambiare vestito. Ho messo occhiali turchinicci, un fitto velo nero sopra la mia scomposta pettinatura… Cerco di rendermi irriconoscibile! Come sono infelice! Queste bassezze mi urtano! Prendo una carrozza, mi butto dentro come un cencio, ed ho un singhiozzo convulso.., poi mi irrigidisco… debbo mostrarmi fredda, sicura ed altera.

Alle 17 precise ho messo piede nel ricco palazzo. Il Banchiere era là ad attendermi sul primo scalone, e mi ha salutata inchinandosi. Quale atroce ironia quell’ossequio! Che commedia! Lo seguivo per un dedalo di ricche sale: finalmente si è fermato in un salone tappezzato di broccato giallo, sontuoso e ricchissimo.

Fremente, ho rialzato il velo e gli ho detto con disprezzo ed ira: — Che volete? Perché osate scrivermi? Io non vi conosco, non voglio conoscervi… — Calmatevi. Parlate, o me ne vado. Visto il mio tono risoluto, mi ha fatto cenno di seguirlo ancora… Non badavo né punto né poco alle ricchezze e meraviglie d’arte che incontravo al mio passaggio — immersa completamente nei miei foschi e disperati pensieri. — Entrate! mi ha detto con fredda cortesia il mio cavaliere.

Ho sbarrato gli occhi, esitante, se entrare o no… Che temete? Venite dunque! Mi ha preso un braccio e fatta entrare, sospingendomi… «rimorchiandomi».

… Si trattava veramente d’una Esposizione! Ah, ma che Esposizione! Figurarsi una lunghissima galleria — con pareti tappezzate di raso viola, illuminata dalla luce elettrica in grandi fasci. Tutti ben allineati, l’uno accanto all’altro, tanti quadri di nudi femminili. In grandezza naturale, come vivi e parlanti! — Mi sentivo oltraggiata nel mio pudore di donna, mentre un uomo era vicino a me… tra quelle nudità.

— Ebbene? Credete che ciò mi interessi? subito gli ho chiesto con tono altero e fisionomia sprezzante. — Lo credo: guardate alla vostra destra, laggiù, l’ultimo quadro! Ah, vedo che vi interessa!

Si dicendo mi guardava turgido di bassi sentimenti, e si compiaceva della mia disfatta.Ha riso, d’un riso breve e secco come Mefistofele! Io, appoggiata la testa allo stipite della porta, ho fatto uno sforzo enorme per non cadere svenuta. In fondo, a destra… l’ultimo quadro… era io, era io! Il viso non si vedeva, perché coperto dalla pioggia d’oro dei miei capelli! Ma riconoscevo benissimo le mie forme alte e slanciate, e gli anelli al pollice del piede. Il mio collo delicato, con la crocetta, le mie braccia tornite, il mio seno eretto, l’anca rotonda che sfumava in una curva perfetta — le mie ginocchia piccole — il neo nella gamba sinistra…Il Banchiere ha centellinata la sua vittoria, godendo della mia ansia. Mentre io mormorava a stento, soffocata dalla rabbia e dalla vergogna:

Che infamia, che vile tranello, non siete un gentiluomo, Signore!Ed egli, prontamente:

— Che dite?! Non vi ho invitata a fare da modella!? Chiamatevi fortunata, non vedete che siete mascherata dai vostri capelli? Vi ho colta mentre eravate presa dalla vostra crisi di gaiezza — una mossa vi ha celato il viso. Che peccato! Ora vi propongo di posare nuovamente.., ecco perché vi ho invitata. Ed io, piena d’ansia e di terrore:

— Un fotografo dunque mi ha… veduta?! Ma no, quietatevi; il fotografo sono io, per mezzo d’un congegno automatico. — Ma l’artista che dipinge le tele? — All’estero… Dove, dove?! Cambio sovente…
— Il mio? Il vostro, a Berlino. Tremavo che rispondesse: Londra! Vi annettevo una specie di fatalità.., se il ritratto era stato eseguito a Londra, mi sentivo perduta. Mi sono riavuta dal mio spavento — ho ritrovato la mia audacia, non ho voluto che egli godesse a lungo del suo trionfo. — Avete ragione, signore, riconosco che voi siete un cultore dell’arte. Ebbene, sappiate che la cosa.., solleva il mio spirito. Come vedete, io vi sorrido — prendete questo sorriso per un ringraziamento. E l’ho sfidato con uno sguardo colmo d’impertinenza. Mi ha guardata attonito, indeciso se credere o no alle mie parole — ed io ho replicato: Spero che adesso vorrete precisare il vostro intendimento. Col vostro invito v’era annessa una velata minaccia: che volete e che devo attendermi da voi?

Mi ha guardata, torvo… io lo dominavo colla mia pupilla dura come la lazulite di cui ho il colore.

  È vero — ho voluto spaventarvi e costringervi a venire, qui — ora vi propongo di posare nuovamente — metto a vostra disposizione la somma che volete! voglio avervi in modo completo, come quadro.

Mai, signore, mai! neppure se poteste darmi l’universo intero!

Gli ho risposto con energia — ed egli con ira a stento repressa:

— Pensate che siete qui, in mia completa balia, venite a patti!

– In vostra balia? Non lo crediate!
— Lo riaffermo: se volessi…

– Ed io se volessi vi fredderei come un uccello qualunque! Guardate questa rivoltella americana, dono d’un mio zio, che mi insegnò anche a servirmene! Non fallisco il colpo. Sono sei — regolatevi!

— Per Dio, mi piacete! Questa si chiama energia! Chi diamine pensava…

– Siete amabile — ed ora posso andarmene?

All’istante una fantasmagoria strana, tante luci abbaglianti hanno dato vita ai quadri: ho creduto che tutte quelle donne si muovessero verso di noi, tra suoni appena percettibili…

Tutte quelle membra si muovevano in ondulazioni voluttuose e lascive. Mi sono sentita a fremere, profondamente turbata:

– Siete un mattoide! Questo è da pazzo — voi sperperate il denaro in simili follie, mentre potreste sollevare tante miserie — voi siete un pazzo, egoista — finirete al manicomio! — ho esclamato.

– Non indignatevi! Non sono pazzo — sono un raffinato. Voi siete una fanciulla e non potete capirmi. Qui fumo i veleni orientali e qui posseggo tutto ciò che vi è di piú bello al mondo! Ah, se voi mi seguiste…

– Il Paradiso di Maometto! Fareste meglio a distruggere tutte queste tele di disgraziate che avete adescate col vostro denaro. Fatemi uscire e fate a pezzi almeno il mio ritratto! Mi prendeste in un momento di follia, non vogliate castigarmi con una eterna apprensione… Vi prego — distruggetelo.

– Ripeto la vostra parola: mai,— ha esclamato, mentre le sue narici si dilatavano…

Allora ho pregato, supplicato, minacciato. Ma quel petto di dissoluto era di bronzo! Non ho potuto smuoverlo… Ah che voglia avevo di fracassargli il cranio!

— Avrò pazienza, egli mi ha detto: mi ostino in base ai miei principi, come voi vi ostinate in base ai vostri — sono memore d’un umile proverbio: Chi la dura la vince!…

Quattro pupille si sono incontrate: fredde e taglienti, entrambe risolute e tenaci.

Quegli occhi là parevano incastonati in una nuvoletta plumbea. Occhi che conoscevano tutte le aberrazioni dei sensi, che ogni orgia avevano veduto e che studiavano di trarre dal corpo umano le armonie più voluttuose; quegli occhi là entro i miei, di ciel sereno, di miosotis, di lazulite — suggevano colla potenza dell’immaginazione, aspiravano convulsamente, rabbiosamente… con fantasia, le sorgenti della vita, mi penetravano in ogni meandro e s’incupivano sempre più impudichi, mentre io sconvolta da quelle nudità, nauseata, eppur affascinata mi sentivo i piedi inchiodati al pavimento.., come le oche ad Ostrow… nei vivai, allorché ingrassano!

Era veramente Omberecais! Egli continuava a fissarmi, ad inondarmi del suo effluvio di concupiscenza. Una corrente satanica e misteriosa, scaturita da qualche infernale connubio tra demoni e furie, mi ha investita… Un calore snervante ha lambito la mia nuca e le mie reni — un soffio infuocato mi ha coperta, avviluppata. Mi pareva che quelle donne si baciassero tra loro, si accarezzassero con cupida bramosia e mi sono ricordata certi ipotetici amori femminili del nostro ambiente — certe gelosie, certe carezze. Le mie tempia hanno pulsato con veemenza ed improvvisamente ho provato così intensa voluttà che ho gridato, gridato come chi soffre uno spasimo! Come che.., ancora… con lo infame, Rob, e più… di più ancora… Un’abbominazione ! — Che avete, che avete — ah come siete bella, siate mia! Parlate e siete ricca, via pensateci… suono il campanello e siete qui la padrona! Quella voce ha interrotto l’incantesimo osceno. Tanto mi ha parlato, non so che mi dicesse! Presa da indicibile spavento pel desiderio di follie che mi avvinghiava — quasi correvo per le sale ricche e deserte, inciampando negli sgabelli, urtando qua e là come un’ubbriaca, sentivo confusamente gridarmi dietro: «Per Dio! Voi.., voi siete pazza — perché fuggire?… Rimanete qui… tutto è vostro, se volete…! » — Pazza, pazza! Era pazza… ancora quella parola intorno a me! Ho rifatto gli scaloni come un fantasma che non tocca terra, gli occhi velati, ansando — non vedevo che confusamente, come mi trovassi tra le famose nebbie di Londra e mi sono rifugiata nella prima farmacia che ho trovato. Mi sentivo l’animo del più feroce anarchico — pronto a mettersi la maschera di ferro per lavorare intorno ai più terribili ingredienti: cotone fulminante, cloruro di azoto, panclastite, acido pirico, polvere verde… Ed erano questi nomi che mi venivano alla bocca anziché bromuro di sodio, lauro ceraso, e camomilla, per calmarmi! Ho fatto di questi ultimi una discreta provvista come attendessi una scossa di terremoto.., e chissà! Avrò probabilmente da azzuffarmi con Roberto quando il matrimonio con Dolly sarà caduto come bolla di sapone… se sospetterà che io vi abbia messo la zampina… Sospetterà di me? Come farà Henry?! Al pensiero di Henry mi vengono le lagrime agli occhi. Se mi vedesse là, nuda, nel covo di libidine d’un gaudente milionario! Ah no, no, mio Dio, mandatemi tutte le torture ma che non lo sappia mai! … Non avrò pace sin che il mio ritratto è in quella tana dorata. Mille pazzi progetti mi passano pel cervello. L’idea di porre una bomba là dentro e fare un macello di tutto mi perseguita. Fare scempio di tutto: fracassare vetri, mobili, tappezzerie, insieme ai quadri! … Che tutto crolli colà, insieme all’acre atmosfera dei lubrici amori solitari! Che tutto si sfasci e diventi macerie polverosa! Se la potenza della volontà potesse tradursi in atto, io avrei bombardato con cento colpi di cannoni quella fortezza della voluttà!

O zio Germano, la mia testa è un vulcano! Il Jorullo in eruzione! Mi trovo anch’io fra i selvaggi dell’amore, più terribili dei selvaggi delle Kennedy. Ho levato i cerchielli col rubino dai miei pollici dei piedi — non li metterò più. Li farò adattare per portarli nelle mani. — Mi libero di questo mio singolare contrassegno degli anelli ai piedi — come che mi cambiasse i connotati. — Connotati veramente, del viso non ve ne sono. — Ma chi non riconoscerebbe la mia figura, specialmente i miei capelli d’un bagliore, morbidezza e lunghezza rarissimi? E sono stata realmente fortunata! E il neo della gamba sinistra coi suoi lunghi fili inanellati chi me lo leva? E la crocetta di brillanti, antica — rara — contribuisce a farmi riconoscere — sono disperata. Questa storia non l’avrei giammai immaginata! Questo strascico non me lo potevo sognare! Saprei negare — dire che quella non è mia fotografia? Forse.., all’occorrenza negherei. Ma con quale animo rimarrebbe Henry: suppongo dovessi giustificarmi innanzi a lui, con quale animo?! Avrebbe più fede assoluta in me? Il mio male di stomaco continua. Di pena in pena, di dolore in dolore, ecco su che cammino da qualche tempo! Sotto ai miei piedi nudi vi è la selce aguzza, che mi scalfisce e fa sanguinare! Ho perduto il segno rosso tracciato colla sinopia, non so dove calcare, non so dove tagliare per stroncare il legno che gravita sul mio capo e sul mio cuore — soffocandomi — tenendomi oppressa dai due capi. Ed è una trave, una enorme trave, che mi soffoca!

Povera Matilde! Quasi ti ho dimenticata nel turbinio dei miei guai!…

Le ho portato dell’uva d’un roseo dorato che mi hanno mandato dal convento di… ove mia zia — suor Maria Fedele — è la superiora. Ho portato alla povera Matilde la bella scatoletta fresca e rugiadosa e profumata. Come fanno a conservare così bene i bei grappoli per l’inverno? E quest’uva è più bella e gustosa di quella raccolta fresca e mangiata sotto le piante di viti. Mi fa pensare al mio oricanno dell’essenze profumate, venuto dall’Egitto. Questi chicchi contengono l’essenza ed io li do ad uno ad uno alle labbra dell’ammalata. Mi pare d’imbeccare un misero uccellino semiasfissiato, che respira appena appena. Le mani di Matilde sono ancor più diafane, mi sembrano di selenite. Gli occhi più grandi, più vellutati; le sopracciglia ed i capelli più neri. L’ho sollevata. Appoggia la schiena ai cuscini, sulle spalle le ho messo una mantelletta di lana, a maglie, bianca, fatta da me — sul davanti un bel nastro di seta rosa pallido — poi pian pianino le ho accomodato un poco i capelli che erano tutti arruffati come quelli delle zingare. Li ho legati con un altro nastro rosa. Con una piccola spugna ed acqua tiepida profumata con Felsina, le ho lavato il visetto scarno. Le ho pulite le unghie come si fa ai bambini. Poi una leggera incipriata rosea. Eccola preparata per l’arrivo del suo amato Diego. Bisogna che la trovi sempre bella — così desidera lei. Poscia ho bruciato Papier d’Arménie — affinché non si senta odore di medicinali. Qualche violetta, e foglie d’edera e di adianto, cioè un mazzo quasi inodoro, ho messo in un grande vaso di cristallo. La camera è ben ordinata, tutto lindo; non produce sgradevole impressione. Si direbbe trattarsi d’una messa in scena e che l’ammalata è un’artista preparata per qualche melodramma. Ma purtroppo Matilde sta male realmente, sovente chiede: Aria, aria. Dammi dell’aria. Allora apriamo le finestre — poi nei momenti più gravi le diamo un poco d’ossigeno. Smania, suda, poi si quieta. Ad intervalli chiude gli occhi, poi li riapre dilatati come per lo spavento. In fine mi riconosce, sorride e dice tutta contenta:

— Marina, ho sognato.

— Che hai sognato, cara?

– Che mi vestivate di bianco e mia madre mi sorrideva.

Un bel sogno, allora!

– Oh, sì.

Poi riprende la sua immobilità. Se non si vedesse il petto sollevarsi nel respirare frequente, si direbbe già inanimata.

Le più amare riflessioni, la più grande malinconia mi prendono mentre osservo la poveretta. Non me ne intendo, ma mi sembra che peggiori, che non sia più di questa terra. Ad un tratto mi chiede in fretta:

– E l’ufficio? Che fanno? Qualcuna viene a vedermi — mi dai un poco d’aria?

Quando mi chiede cos í mi strappa il cuore; «dammi dell’aria» equivale a dammi della vita, che mi sfugge; ah come è triste questa giovinezza abbattuta in un attimo; e penso alle figliuole dei poveri impiegati morti — senza aver diritto a pensione… oh quante miserie! Chissà quali oscuri sacrifici ed eroismi. Io vorrei parlare a questo Diego e dirgli tutto. Se è un uomo di cuore comprenderà, l’assolverà e forse Matilde potrà vivere. Ma se la condannasse? Se provasse orrore sapendola contaminata? Questo caso sarebbe più terribile della morte stessa… e penso e ripenso mentre l’ammalata è immersa in un sopore tranquillo. Levo dal mio borsellino d’argento, il piccolo rosario di madreperla. Lo levo di rado ora, ma non mi abbandona mai, come fosse un amuleto, un appoggio, una protezione. Sono in un momento di sconfinata abnegazione. Il mio sangue si offrirebbe per salvare cotesta poveretta che agonizza — che morirà perché la sua lealtà le vieta di amare. Prego sommessamente, assorta in un ideale di carità. desiderosa d’essere anch’io suora: suora di carità — girare gli ospedali notte e giorno per lenire gli altrui patimenti… Ah come mi sento limpida, trasparente! Pura come il cristallo di Boemia ove son tenute in vita le violette, l’edera, e l’adianto! Una profonda emozione mi dà lagrime dolci, quasi di gioia; ho baciato leggermente la fronte dell’ammalata e sono fuggita dimentica di tutte le mie ansie, di tutti i miei errori.

Vi sono in cielo ed in terra tante cose che la nostra filo­sofia non sogna neppure – dice Shakespeare – io vorrei di­re. Tante cose sono nel nostro cuore anomale e contraddit­torie, tante antitesi, rapidi cambiamenti, contorcimenti di sentire, tanti dispari ed improvvisi battiti, che nessuna fi­losofia saprebbe immaginare – e neppure la più potente fa­coltà volitiva varrebbe a modificare. Perché?! Chissà mai perché stassera sono tanto irritata contro Henry De Liver­stone? Perché la mia tenerezza vien meno? Oh io stropic­cio, rilucido, un’idea maligna. Adopro lo strufolo come lo scultore intorno al suo lavoro. Qualche cosa mi spinge, mi costringe a pensare che Henry è con Cilly Sicilienne e che quella lo ammalia, lo seduce – ed egli, ricchissimo, se la paga come comprerebbe una pariglia di cavalli da cin­quantamila lire. Se la compra e si diverte! Cilly svegliereb­be le pietre! Intuisco tutto. Invano penso che Henry l’ha chiamata per servirsene contro Roberto. Ella, tanto sa­piente, bella e perversa – egli … uomo! Mi pare di sentire le loro voci tremanti pel desiderio. Ella, nel suo boudoir, attende alla toilette intima, Henry la guarda fumando una sigaretta, colle gambe incrociate e gli occhi circondati dal petalo violaceo, fior di malva intriso di sangue. Ella si arricciola, profuma, imbelletta – «si fa artificiale» – dan­dosi un sapore acre che stimola, acuisce le basse passioni. La mia collera diventa ferocia! Ho sbattuto mobili; sin­ghiozzato; frantumato un ombrello per dare sfogo ai miei nervi in tensione – poi trafelata, ululante come presa da trismo, i miei denti stridono. Sono orribile, sconvolta, ac­casciata, spossata, disossata, cadente, senza sguardo, sen­za vita! Chi devo amare? A chi dare tutta questa mia vi­talità che straripa e trascina?! Come potrò vivere arida come la pomice?! Piango, provando per me una grande compassione. In me vedo riflesse tutte le miserie dell’uma­nità. Non ho nessuno affetto santo. Non la madre, nessu­na sorella, nessuno, nessuno! Solo qualcuno che agogna la mia carne! E se Henry davvero mi ama con purezza di in­tenzione, io non lo posso più accettare. Non è atroce, non è atroce tutta la vita così?! Sposare 13 capelli per la ricchezza? Mai mai! Non so che farmene di denari, ho bisogno di amore, di amore!

O fiore di lichene…
cantano le sirene!
o fiorello del mare
stalle ad ascoltare…

Io canto i miei stornelli mentre sono intenta a farmi orrida e brutta e vecchia! Sono gaia! Davvero io sono il fior di trifolio che cambia di colore tre volte al giorno! Eccomi allegra, innanzi al mio magnifico specchio dal grifo oscuro in alto e dal plinto plastico di foglie e rose al basso. Totillo, Baby mio, non t’impressionare, non sbatacchiare l’aluzza giallo-verde variopinta e non guardarmi come un cretino qualunque! Stassera si tratta di far la vecchierella forestiera. La lady che ha parecchi capricci non che rendite al sole. Ho messo una parrucca color sale e pepe. Faccio una testa grossa come una cucurbitacea. Ecco il nero per le rughe, del bianco giallo; sarò intonacata e ristuccata! Due grandi occhiali verdi, un enorme mantello antico, un velo nero e verde innanzi al viso e sulla capote di mia nonna — uno scialle scozzese — la lorgnette — di più un po’ di gobba, cioè tutti i miei capelli nascosti nel dorso — ho messo un sughero in una scarpa, quindi zoppicherò… Sono dunque bella come una strega! Un medaglione d’oro al collo, due lunghi pendenti alle orecchia. Presento una macchietta riuscitissima. Sono una vecchia, ricca, originale, forestiera. Bisogna che io rida, e rido, rido come una pazza! Sciopero d’idee tetre. Se mi vedessero i miei amici, le mie colleghe, i miei ammiratori! La metamorfosi è superba e grottesca!

Fiorin di mortella
io ti amo d’amore…
io ti amo d’amore…
sorride la stella!!!

Cosi conciata andrò all’Eden, al debutto di Cilly. Bevo un fernet ed esco. Una vettura… eccola… «A teatro Eden» — ho biascicato in cattivo italiano! Il vetturino ha menato la frusta allegramente perché i forestieri pagano bene!!

Mi sono sdraiata in una poltroncina con grande disinvoltura — ed ordinato un caffè in ghiaccio, la mia bibita preferita — ho girato il mio testone da destra a sinistra, sbirciando con la lorgnette… cercando chi volevo vedere. Nel parterre grande folla, compreso l’ispettore principale, col nostro direttore. Poi ho veduto entrare Henry con Roberto, il Conte Ferretti, Don James D’Olivairez nobile spagnuolo addetto al collegio di Spagna a Bologna, l’avvocato De Fanti, un gruppo d’ufficiali che conosco, alcune signore dagli occhi profondissimi e dipinte come un acquarello. Non ho provato nessuna agitazione. Il suono dei flauti e dei violini mi guidava all’allegria. Guardavo in alto all’orologio, mancavano ancora cinque minuti, andiamo, cammina! Il mio piede ha cominciato un ritmo nervoso. Il tallone si muove, il mormorio del pubblico si è cangiato in silenzio completo… L’orchestra intona una romanza spagnuola ed ecco… il primo numero. Una bella spagnola col suo ballerino.., non mi importa niente! Sento lo scrosciar degli applausi, ma io guardo sempre Henry e Roberto che mai più suppongono che io sia qui, spettatrice… di tutto! Roberto si tormenta í baffetti, Henry ride col Conte Ferretti e Don James. La sua fisionomia è quella d’un ragazzo che si diverte!

Numero 2: Gagliardi equilibristi, belli, solidi, e snodevoli. Più volte rischiano di rompersi il collo o una vena, fanno prodigi di forza e d’equilibrio.

Il tic nervoso del mio piede aumenta! … L’orchestra preludia pateticamente, l’arpa ha più dolci rintocchi, la viola più soavi note, i violini ed il piano sembrano un sussurrio d’amore. Tutti gli occhi sono rivolti allo stesso punto. Il telone si rialza ed un’apparizione ideale si presenta, ci trasporta e meraviglia! Il numero tre è un’oasi, un’oasi con palmizi, cedri, lussureggiante vegetazione — ed un gruppo di schiave nere come la pece suonano piccole lire (il kras). Sono nude come la mia Ebe negra. Danzano lentamente, con strane mosse degli occhi e delle grosse labbra, accompagnate da grida gutturali — una luce rossa, come fiamma d’inferno le investe, mentre il tremoli() delle lire e delle bagane si accorda coi violini e continua una snervante musica che fa male, a me fa male; via la luce rossa, subentra un fascio azzurro ed ecco Cilly, Cilly! È lei, è lei!

Tutti applaudono freneticamente. Sembra un’apparizione sopranaturale. Io, sotto un altro aspetto, la divoro collo sguardo, come tutti gli altri. Guardo le sue bellezze per misurarle con le mie, mentre gli altri occhi sono come tante api che s’annidano sopra la corolla dei fiori…

Anche Cilly ha dei capelli superbi, se sono naturali. Intorno al capo un serpentello sottile, squamoso e brillantato, un altro le allaccia la gola, un terzo più grosso le inanella i fianchi, mentre l’aspide rossa, trema ad ogni minima mossa. Ella veste una maglia rosea con grandi fiorami d’argento, come tatuaggi sulla carne. Dai fianchi le scendono lunghe foglie di cinoglossa: le formano un gonnellino che si divide ad ogni movimento, in ogni punta vi scintilla un brillante. E quando si muove si sente un crepitio, un fremito, uno stormir di fronde… Il suo canto ha risposto a quello delle negre. Ella suona un corno elefantino, poi si è sdraiata come morente e le negre l’hanno cullata, vezzeggiata, baciata, toccata, massaggiata… Non ho guardato più, il quadro era più che diabolico! Che si voleva rappresentare? Senza dubbio un’orgia femminile… Era la seconda volta che mi sentivo sconvolgere.., per simile quadro…

Ho atteso l’uscita di Cilly; la stella d’alto bordo è passata tra due fitte ali di spettatori come una gran dama alla sortita dal teatro. Un gruppo di signori era con lei, tutt’avvolta in una bella pelliccia d’ermellino. Roberto ed Henry erano del seguito. Ella si è voltata con grazia, prima di montare nel suo equipaggio a due cavalli:

— Venite signor De Liverstone, voi che abitate al mio Hotel, volete accompagnarmi? — così ha detto gentilmente ad Henry.

Henry si è inchinato galantemente e sono scomparsi al trotto… Ho sentito un mormorio, un commentar confuso — ed ho veduto Roberto livido di rabbia, mordersi le labbra, le sopracciglia aggrottate, torvo nell’aspetto, ha landato un’ingiuria ed una bestemmia… Egli era furente! Dove vuole arrivare Henry suscitando la collera e la gelosia di Rob?

Sarà la solita storia del duello! Me lo ripeto spesso con un poco di sdegno e di compatimento. La cosa ormai sta per diventarmi indifferente. Che deve importarmi piú il matrimonio di Roberto? Non è egli l’uomo che ha ucciso sottraendosi al codice penale? Sposi Dolly, o no — peggio per lei, in ogni caso! Ho ripescato un frustolo di filosofia.

Eccomi. Ritorno giovane e bella, allegro specchio mio. Noi sappiamo ciò che siamo oggi, e non sappiamo ciò che saremo domani. Sono bella senza pitoni in capo, al collo ed alle reni! Senza maglie e foglie di cinoglossa brillantata alle punte. Trillo come un usignuolo! La vita è un giuoco, si può perdere ed anche vincere… Attendiamo gli eventi!

Fiore di lichene
evviva la speme…!
Fiorino del mare
Io non voglio amareee!

Il mio cervello manda bagliori, come la mia crocetta brillantata manda i suoi fasci di luce iridata. Anch’io sono iridata di idee e di impressioni. L’ora di suicidarmi non è ancora venuta.., se arriverà lo farò con un serpentello vivo sul seno, come la bella Cleopatra.

Ecco, Cilly, i serpenti si debbono usare solo a questo scopo e non come strumento di lussuria! Sappiate anche che in certi paesi selvaggi.., si adora il serpente come una divinità… servitevi dunque d’un’altra bestia… Giù due ostriche, una tazza di crema, un grappolo d’uva roseadoratal… Poi sciolta la criniera, metto il camicione di flanellina morbida, poi un bel salto sul lettino bleu-électrique… La notte porta consiglio!

Una vocina debole e disperata mi ha chiamata! Sentivo distintamente: — Marina, Marina, chiamami il prete – chiamami il prete! Sono balzata dal letto ed ho guardato intorno… Nessuno! non c’era nessuno… Ma l’appello disperato mi risuonava nel cervello. Ho esitato due minuti. — e la vocina continuava: — Marina! Marina! — Mi sono vestita in fretta, avvolta in un mantello, la testa in una sciarpa, ho bevuto un sorso di caffè, son discesa a precipizio Nella vicina piazza l’orologio ha suonato le tre — le tre di notte — non c’era anima viva — soltanto un vetturino sonnecchiava innanzi al Caffè di S. P.:

— Presto! Correte! in via… n….!

I ciottoli risuonavano sinistramente sotto le zampe del cavallo, che sferzato, correva rapidamente. Passavano gli omnibus d’albergo — andavano alla ferrovia, carichi di bauli: null’altro; ovunque un buio triste di vita morta…

Oh, non saprò mai descrivere la scena di dolore a cui ho assistito! Era vero, era vero! Mi chiamava, mi invocava e colle sue manine diafane di selenite brancicava nello spazio, innanzi a sé! Mi ha subito riconosciuta: — Il prete va. Marina, chiamalo — l’ora è venuta! — Nessuno dei presenti voleva saperne. — In parte per principio, in parte considerando il prete come un inutile sgomento fatto pei aggravare la situazione. — Ma l’ammalata aggrappata al mio collo ripeteva: — Chiamalo, me l’hai promesso, vuoi dunque che io muoia disperata?! Va, Marina, presto! venuto un vecchio, curvo e candido. Ci siamo ritirati nell’attiguo salottino. Piangevamo tutti senza parlare… Pochi minuti dopo il sacerdote mi ha detto: — Prepari una tovaglia bianca, due candele — ora vengo col Viatico. La mia emozione era intensa — ho abbracciato l’ammalata dicendole:

— Ho voluto accontentarti, ma spero vivrai ancora tanti anni, e più contenta! l’ospite divino ti guarirà.

Io ritrovavo un poco di fede. — Ho voluto avere l’aspetto sorridente per incoraggiarla, mi dolevano le mascelle per lo sforzo che facevo nel mostrarmi sorridente.

Ingoiavo le mie lagrime. Matilde mi guardava con una fissità spaventevole, pareva volesse scrutarmi il viso, capire da questo la realtà del suo stato. Certo ella si misurava coll’espressione del nostro dolore. Così ho creduto io. Chissà poi se questo era il suo pensiero. Tra l’angoscia sentivo pure uno struggimento di tenerezza, come un balsamo soave sopra una ferita… Provavo uno slancio d’amore verso quel Dio che viene a noi per accompagnarci, per raccogliere col nostro ultimo respiro, l’anima sciolta dai suoi ceppi mortali. In quell’istante era veramente l’unione con Dio! Durante la vita noi ricadiamo nel peccato. Dio lo sa. Quando l’accogliamo non può esservi l’unione perfetta. Ma in quegli istanti in cui le passioni sono morte per sempre, in quegli istanti la creatura è veramente tutta col suo Creatore! Così pensavo seduta al letto della povera Matilde. El-l’era come addormentata. Dopo la confessione. — Un’espressione di quiete era diffusa sul suo volto bianco. Poi quanti cambiamenti ha fatto! — Variava di fisionomia — ora pareva bellissima, ora più vecchia, ora bambina, ora sofferente.

Ma davvero questa povera giovinezza deve dissolversi? Ma tutto ciò che vi è in lei di spirituale, quel soffio col quale Voi, mio Dio, infondeste vita alla creta, certo ritorna a Voi. Ecco perché tutti i morenti mandano un forte sospiro all’ultima ora! È l’alito di vita che ritorna laddove ne era partito. Suppongo, credo sia così. Tutti si sono ritirati un momento per riposare, visto la tranquillità dell’ammalata, il suo polso quasi regolare, l’apparente miglioramento.

Io pregavo e guardavo. L’ammalata smania, suda e dice con tono di gioia:

— Oh! la mamma! la mia mamma! — Ha gli occhi chiusi, le labbra ridenti. Sogna? Ascolto curva su di lei. Sento che mormora parole incomprensibili… poi spalanca gli occhi con terrore e dice:

– Che grossa bestia c’è qui — che cosa è?! — Non c’è nulla cara. — È la tua debolezza!

– È venuta la mamma!
— Sognavi!

– No, no, è proprio venuta la mamma.

– Ora ti senti meglio?

— Meglio.

Poi, il Viatico. — Soffocavo d’emozione — ricordavo gli ultimi istanti di mia madre e pensavo che gli ultimi momenti dovevano venire anche per me! La solennità della semplice ed augusta cerimonia avrebbe intenerito i macigni. Io era inginocchiata ai piedi dell’ammalata, che continuava a fissarmi.

Rispondevo alle preghiere del sacerdote, col capo curvo, annichilendomi tutta, sentendomi un nulla nello spazio, meno dell’atomo, meno di niente!

— Ora sei contenta Matilde? — le chiedo sottovoce appena uscito il sacerdote.

— Sì, grazie, Marina. — Mi accomodi i guanciali, mi dài un poco d’aria?

Le abbiamo dato l’ossigeno.

— Adesso dormo, ha detto.

Poi si è rannicchiata in fretta.

– Perché fai così?

— Ritiro i miei piedi brutti.

— Perché?

— Perché li in fondo, c’è il Signore: nulla! nulla!

— Chi, il Signore?

— Zitto, zitto, — e m’ha sorriso ad occhi chiusi, poi silenzio.

A me faceva una paura strana, inesplicabile. Diventava bella di una bellezza ideale, poi si abbuiava, sformava, invecchiava e ringiovaniva. Tremavo, avrei voluto fuggire.

Guardavo le sue narici che internamente diventavano nere… Ho chiamato tutti:

— Venite, guardate — ho paura — dorme, o… che cosa?! — Dorme, — dicevano.

– Ma questo sonno… non capisco, chiamate il medico, subito!

Pareva proprio che dormisse, calma, sul fianco destro — il bel profilo si disegnava perfetto.

Sono uscita dalla camera per prendere un po’ di fuoco nello scaldino.

– Lasciamola in pace, ha detto Diego — questo sonno la ristora — poverina.

Tutti sono passati nel salottino — erano disfatti dal dolore, dalla fatica delle continue veglie. Ma io subito sono ritornata da lei. Ha aperto gli occhi debolmente colle pupille velate — ah quegli occhi non li dimenticherò mai! L’ultimo suo sguardo — ha sospirato ed ha cessato di respirare come un orologio che cessa i suoi battiti a carica terminata. Nessun sforzo, nulla! t rimasta immobile e bianca sul fianco destro. Il suo viso raggiava d’una beatitudine immensa — agli angoli degli occhi erano le sfumature che dona il sorriso ed io ho sentito netto e distinto come il suono d’un bacio.

— Matilde, Matilde, — tutti chiamavano con singhiozzi disperati. Ma ella era partita, per sempre! Mi ronzavano nelle orecchia tante sue frasi: «La colpa è di questo miserabile Governo…»

Era l’alba — sorgeva un nuovo giorno. Già le campane suonavano l’Ave Maria, la nebbia turchiniccia avvolgeva la montagna, nel cielo tutte le gradazioni, dal rosa al granata. — «Morirò di giorno», diceva e realmente era morta di giorno.

E adesso dove sei? Ci vedi? Povera, povera martire!

Mentre tutti erano là a baciarla ed a piangere, ho aperto la finestra — riordinato la camera pianin pianino — ho trasportato la giardiniera con le piante sempre verdi vicino al letto — ho acceso due candele — le ho avvicinato il vaso di cristallo con le violette, l’edera e l’adianto. Sulle sue manine ho messo il mio piccolo rosario di madreperla. Le mani non rigide, in posa naturale mi facevano sin dubitare della sua morte. Il medico è venuto, constatato il decesso, purtroppo vero! Bisognerebbe avere il coraggio di lavarla, vestirla, ma io non resisto più! Ecco un delle vittime dello stipendio a lire 2,30! Ho ricordato primi colloqui, la confessione del suo sacrifizio, a cui en giunta dopo aver tentato di vincere la dura prova. Ho ricordato le sue nobili parole: «ingannare un uomo? Mai È meglio che muoia! Poi non hanno più bisogno di me Morrò di giorno, vedrai!»

Cosí diceva ed è tutto accaduto conformemente — o po vera pianticella, travolta e schiantata a quante considera zioni, mi guidi. Gli avvenimenti sono forse preceduti qualche segno foriero che non sempre ci sfugge? Ed ic che ho navigato sopra una canna, sarò anch’io travolta ne vortice della vita?!

Ho acceso un gran fuoco nel mio pied-à-terre. Mi sono ben bene scaldata, riavuta: sento una grande pace — ho fatto il mio dovere con la povera Matilde e ciò mi rende tranquilla. Ho fame — quasi tutta la notte in piedi… Ecco il mio vaso di miele. Le donne greche se ne servivano per abbellire la loro carne, io invece me ne servirò per saziare l’appetito, con delle fette di pane arrostite. Non ricordo più le angustie mie. Oggi in ufficio saremo tutti in orgasmo e per due o tre giorni, poi tutto passa, anche la morte!

— Ma dove andate così di buon’ora? Scusate, Miss Ma rina… cosí interroga Henry De Liverstone, che incontrc appena fuori di casa.

Gli ho detto il triste avvenimento e come ho passato li notte — mi ha stretto le mani con impeto:

— Voi siete buona! Grandi novità da darvi, ecco perché venivo da voi in un’ora indiscreta, mi perdonate? Posso accompagnarvi?

— Venite a casa, Henry. È meglio. Vi pare? Appena deposto il berrettone e lo spencer, mi ha detto:

— È finita, è finita la commedia! Il Conte di Brighten si è condotto in modo così villano che mi ha facilitata l’impresa. Eccovi in due parole: Ho accompagnato Cilly dopo il teatro…

— Lo so, lo so! — mi è sfuggito.

Henry meravigliato:

— Come, lo sapete?!

– Ho assistito alla rappresentazione ed ho veduto tutto — voi a salire in carrozza con Cilly…

– Impossibile, impossibile, vi avrei veduta…

– Ero gelosa, Henry — ho voluto vedere quella… Cilly.

– Ed ora?! Ma come ho potuto non vedervi? Ma, permettete, Marina, voi avete commesso…

— Una sconvenienza. Lo so — però ero tanto vecchia ieri sera, e forestiera e gobba e zoppa…

— Che dite, che mi dite?, quella umoristica vecchia, eravate voi! Ah ciò è genialissimo, pieno di verve! Fatemi baciare la vostra bianca fronte, sapete sono contento… E dire che ho riso di… voi! Vi avevo notata! Eravate una vecchia grottesca, come ne ho vedute a Sorrento, a Baden-Ba-den — qua e là pel mondo! Ma stento a credervi, perdonate. Che avete veduto al teatro Eden?

– Che ho veduto?! Uno spettacolo mostruoso, indegno. Tutta l’esposizione di un’arte lubrica e lasciva che offende la dignità umana. Quello spettacolo era un orrore, non ve ne accorgete dunque? Ammetto ogni follia quando si ama, i falli)Pamore li compatisco. Ma tanta oscenità larvata dai-pretesto dell’arte, l’imitazione di ogni dissolutezza, è rivoltante, convenitene!

– Ma, forse, voi.., esagerate… perché non capirete…

— Già non capisco tutto — è vero, questo è vero. C’è anche di peggio! E quella Cilly carica di trionfi, di gioielli, disputata, che suscita violente passioni — sapete a che lo deve? Lo deve a queste scene di pubblico libertinaggio. Gli uomini imbestialiscono tutti! E dopo, la foia dell’uno acuisce quella dell’altro — ecco perché si fan pazzie…

— Come parlate, me ne dispiace…

— Merito artistico non ne ha affatto, affatto. La sua voce è povera, dolce sì, ma poca cosa — appena appena educata: non c’è confronto con la mia, eppure. Eppure io non volli mai cantare nemmeno nei nostri saloni — perché mi pareva non valesse la pena di farmi ascoltare — e quella Cilly è pagata a migliaia di lire! Tutto quell’apparecchio di schiave negre nude, ed ella rosea inargentata e coi serpenti dall’aspide tintinnante è un portento d’immaginazione di qualche pittore eteroclito e… sbrigliato. Tutta la mimica poi non voleva dimostrare un’orgia femminile? Non mi sbaglio, no. Ma è una vergogna!

Henry stupito e contrariato mi ha guardato un momento, poi lisciandosi i capelli mi ha detto con melanconia:

— Mi dispiace sentirvi parlare di queste cose, mi rincresce che voi le sappiate, nondimeno non posso darvi torto nel vostro giudizio…

Spinta dalla gelosia ho parlato troppo… senza riflettere. Come fossi sola a fare i miei apprezzamenti! Ho abbassato il capo, ma subito risollevandolo:

— Ho voluto sapere! Credo più utile la conoscenza che l’ignoranza e del resto, Sir Henry, ora sono un’impiegata. Sola, nel mondo. È utile che io sappia — voi vedete in me un brillante che s’appanna alla conoscenza del vizio, viceversa l’ignoranza può travolgere nel precipizio perché lo trova celato. Non ho più madre, non ho più padre, nessuno. Solo me stessa e per tutelarmi devo sapere! Vi ho amareggiato?

— Sì, ma continuate — vi sorrido anche.

— Avete visto i ginnasta, gli equilibristi? Erano degni di competere con gli antichi acrobati, neurobati ateniesi. Appena appena hanno avuto un battimano! Un applauso di convenienza! Hanno lavorato di muscoli, di nervi, di ossa e non avranno la centesima parte dell’onorario di Cilly! Ciò mi indispone — e mentre assistevo la mia collega morente voi Sir Henry eravate ancora in téte-à-téte con Cilly?

Mi avete stordito, confuso e forse… frustato, — comunque… volete il resoconto della mia notte? Eravamo appena seduti in salotto, col tè bollente che mi serviva Cily — quando un cameriere, scusandosi, porta la carta del Conte di Brighten ed aggiunge che il signore insiste per motivi urgenti. «Dite al signore che non ricevo» risponde Cilly. — Passa un minuto — il cameriere confuso ritorna ripetendo che il signore vuole parlare alla signora. — Cilly impaziente, battendo una mano sul tavolo, grida: «Ripetetegli che non ricevo e voi non importunate. M’intendete?! » La porta si apre con impeto, Roberto, entra come un pazzo furioso! — Ci alziamo di scatto, io e Cilly: «Uscite, signore — voi non siete un gentiluomo» dice Cilly, scattando. — «Uscite! Voi non agite da gentiluomo», aggiungo io! — Egli si è rivoltato come una iena e si è gettato su me. Allora è cominciato un pugilato violento — ci siamo colluttati come due lottatori di boxe — o meglio come due facchini — mentre lo spingevo verso la porta. Egli mormorava ingiurie e bestemmie, urlando a Cilly: Mala femmina, mala femmina. A Venezia mi riceveva ad ogni ora! Io l’ho squassato ben bene e l’ho buttato dalle scale mentre accorrevano il Maître d’hotel, tutti i camerieri, gli sguatteri ed il portiere. Dall’alto delle scale mia sorella, pronta, ha assistito alla conclusione ed ha esclamato: «Non ci conosciamo più, signor di Brighten, voi non siete gentiluomo! » Egli era liquidato! Non credevo la cosa tanto facile e sollecita! V’assicuro che mi sono divertito. Pareva una pochade e dopo, tutti.., hanno brindato alla mia salute, poiché ho dato una buona mancia! Eccoci liberati per sempre, con la sola perdita di diecimila lire donate a Cilly. Siete tranquilla? Roberto non dubiterà di voi. Siete soddisfatta? Una domanda mi bruciava le labbra: — Scusatemi, Henry, una domanda un poco ardita, da signorina educata alla americana: ditemi sinceramente:

Sino a che ora ed in quali rapporti siete rimasto con Cilly dopo aver liquidato il Conte di Brighten?!

— Quanto tempo? non vi ho fatto attenzione. I rapporti? Quelli del nostro contratto, ho saldato la partita!

La risposta è stata abilissima. Io ho cercato nei suoi occhi le stimmate della voluttà, indagata la sua fisionomia per scovarvi la verità, ma non ho trovato nulla di positivo. Era un poco abbattuto, ma si poteva attribuire alla notte insonne. Era il viso di un vero inglese: impenetrabile come una tomba, quando vuole essere impenetrabile.

Poi un’oretta di tenerezza casta, d’amore educato, l’idillio di due fanciulli innamorati. Pensavo che tutto doveva ridursi a quell’ora di dolcezza e sono stata affascinante di poesia, di tenere sfumature, di carezze innocenti e squisite… Un’ora veramente sentimentale e deliziosa.

— Partirete, Henry, partirete?!, partirete!? — Sì dicendo gli ho fissato in viso i miei occhi di zaffiro frangiati d’oro, umidi ed appassionati.

Le mie labbra di fragola matura si sono tese verso Henry lasciando passare un alito caldo d’anima ardente!… Le nostre mani strette nervosamente.., la mia testa cadeva all’indietro… Ma baciami, baciami! La bocca silenziosa pure urlava il mio desiderio! Tacevo, dominandomi a stento. Henry si è avvicinato di più, di più… quasi mi abbracciava, pareva soffrire, ed io lo guardavo nel collo, nel petto, con uno sguardo che passava abiti, carne ed ossa.

Il pensiero della sua partenza me lo rendeva infinitamente caro, sembrandomi di non aver amato mai altro che la sua bella testa gioviale, il suo bel corpo roseo e fresco. Ma egli non sapeva l’ardore mio, non concepiva l’esaltazione morbosa, rimaneva con una certa timidezza d’adolescente che centuplicava il suo prestigio. Ed io rantolavo, sferzata, morente, inconscia, tremante. Femmina, femmina!

Mi sono buttata sul petto di Henry singhiozzando, senza fargli capire la mia tortura. Oh! egli aveva, senza dubbio, i sensi calmi, paghi, domati, ed ecco perché poteva conservarsi amorosamente fraterno! Allora mi ha preso una rabbia perversa; decisa a farlo fremere, irritata della sua compostezza. Tutte le piccole astuzie femminili le ho usate. Continuavo a piangere ed a baciarlo sul viso, sui capelli, sul collo, sul vestito, sulle mani, inondandolo del tepore del mio corpo… Prenditi il mio braccio bianco, la mia gola, la mia nuca, il mio dorso perfetto, la massa d’oro dei miei capelli… Oh finalmente ha perduto la testa! t impallidito, ha barcollato e mi ha dato una stretta di ferro…

Allora mi sono ribellata: Mi sono divincolata, stravolta, scapigliata, scomposta ed anelante. Mentre l’altro tremava come un febbricitante:

— Siamo pazzi, Henry? Andate, andate via, presto. Andate via! — ho supplicato.

E per un attimo mi ha ripreso l’idea infame: Abbandonarmi a lui e se egli non rilevava che non era più pura, sarei stata sua per sempre! Ma ho scacciata quella tentazione satanica… ho ricordato Matilde! … Ci siamo calmati… ancora tenerezza e poi l’addio! …

Addio caro! addio buono! gentile! che ho incontrato sul mio cammino troppo tardi. Andiamo incontro al mio triste destino: bisogna che io sappia accomodarmi al mutamento dei venti come un buon pilota. Ho il presentimento di altri dolori ed io non sbaglio mai. Ho la strana facoltà d’indovinare molte cose. Del resto ciò non è nuovo nella storia degli antichi tempi. Non fu dato a Leonida ed ai suoi trecento spartani dal vate Megistia l’annuncio della prossima morte? E quanti altri simili casi! Mi prometto d’essere come Socrate nel saper sopportare tutti i mali della vita! Intanto Henry mi ama. Comunque è sempre un conforto sapersi amati sinceramente.

— Freddolosa, ti faremo un astuccio di peluche rosa, e ti rinchiuderemo dentro lasciandoti fuori le zampine come la tartaruga, perché tu possa lavorare! — Così mi ha detto Nina Sambise mentre mi scaldavo un momento alla stufa. Forse perché non ho dormito sento un gran freddo.

Tutti mi sono d’intorno ed assediano di domande per la morte di Matilde Bartoli; mi chiedono particolari, mi si ammira ed anche… mi si fa la critica!

— Come sapevi che stava male?

– Uscir sola alle tre di notte!

– Chi c’era?

– Come era?

– È diventata brutta?

– Che paura, veder morire!

— Sei un’eroina!

— Ha sofferto molto?

– Che coraggio!

Il coro ha durato tutte le sette ore d’ufficio e durerà per qualche giorno ancora. Abbiamo combinato per l’invio dei fiori. Una corona colossale di bianco e verde, con grande nastro I Colleghi.

Alle 22 me ne vado stanchissima e febbricitante. Nel darmi la buona notte, Nina mi ha mormorato:

– Hai fatto un’altra buona azione, Iddio ti ricompenserà!

Poi abbiamo parlato del suo prossimo matrimonio. Ella sogna, sogna, ed io sono mortalmente triste.

L’usignuolo non si cura di dormire, così anch’io malgrado ogni fatica o emozione, non sono capace, appena giunta a casa, di coricarmi. Ho suonato un poco la mia arpa, dipinto una conchiglia, imbeccato Totillo come al solito, guardato il cielo, bevuto il tè con latte ed accomodato una vestaglia di panno crème, sempre della guardaroba di mia madre. Io sono pii alta e più sottile di lei, povera mammina! Ho potuto accomodarmi una vestaglia veramente deliziosa: liscia, con grandi maniche da frate, foderate di raso color canaro ed applicazione di bottoni artistici, antichi, con largo nastro liberty dalle spalle alla coda e ricami di seta color canaro come la fodera. Il mio viso acquista un tono rosato sopra quel colore crème e giallo delicato. Poi mi sono accomodate le treccie, fatta la mia toeletta di notte. Allora mi sono decisa di pormi in letto colla veglieuse accanto che mi manda il suo colore violaceo e tremolante.

Rifletto a tutti gli avvenimenti capitati in sì breve tempo. Miserabile Roberto, almeno non avrai i milioni di Dolly! E se accettassi l’invito dei signori De Liverstone e mi rifugiassi a Londra, come… Mazzini?!! E vedere Henry ogni giorno?

Ho sognato che era realmente a Londra. Ecco la seconda volta che sogno la fitta nebbia della bionda Albione. In piazza Regina Vittoria un tram mi ha quasi schiacciata. Tra il fumo denso e caliginoso che accecava non potevo proseguire. Non andrò a Londra ho bisogno del bel cielo d’Italia. Ippocrate diceva che quando il corpo è preso dal sonno, veglia lo spirito. Non credo ai sogni, né voglio come il Re Faraone penetrarne il senso recondito, tuttavia, questo sogno lo prendo come un avvertimento.

Vidi un magnifico quadro chiamato Il miracolo delle rose: era un corpo femminile delicato con l’aureola dei santi intorno al capo dal quale scendevano lunghi i fluenti e biondi capelli, rivestito di lini bianchi, adagiato sopra l’invisibile.

Il collo esile e lungo, le manine di cera, non rigide, ma dolcemente posate. Nel viso un’espressione di cielo. Intorno, ovunque, sbocciavano tante rose, una pioggia di rose. Così mi è sembrata la mia povera collega. Tutta candida e soavissima, tutta coperta di rose, fra i ceri accesi, coll’aureola del martirio che io sola conoscevo. Anche l’animo pii scettico si sentiva costretto a piegare il ginocchio! Sono giunte diverse corone e cuscini di fiori, la pii bella e pii ricca era quella di Sir Henry — offriva pel tramite mio. L’atto così delicato e nobile mi ha profondamente commossa. Quale animo squisito, o buon Henry. Voi siete migliore assai di me. Poi una tutte viole del pensiero, senza carta da visita. Ho indovinato, credo aver indovinato. Era del miserabile causa della morte della vittima. Avrei voluto scaraventarla nell’immondezzaio.

La camera pareva una serra fiorita, ma con l’odore strano di cimitero, di cose morte, indefinibile. Ho trovato Nina Sambise inginocchiata, pregava con fervore, poi hanno portato il grande cofano… Nina ha messo un Crocifisso sul petto della morta, e sul guanciale, entro la bara un mazzetto di fiori bianchi.

Ed è rimasta mentre ponevano la povera Matilde nel suo ultimo asilo. Io non ho potuto resistere, le ho dato un bacio e sono fuggita. Cercavo una visione sublime di eternità ma il mio sentimento religioso è quasi travolto nell’ingranaggio umano in cui sono impigliata…

E cotesta mia libertà che tanto ho sognato è migliore della schiavitù dorata della Contessa? Era più pesa la sua nave tutelare, o la mia libertà? Non so camminare da sola come il mio povero zio nero? Mi hanno troppo storpiata prima tenendomi in prigione?

Tutto quell’apparato di morte mi sconcerta, mi sembra che nulla valga la pena di vivere, perché se poi dobbiamo ridurci a scomparire per sempre?…

Quand’ero piccola il giardiniere della Contessa raccolse nel parco un merlo piccino, caduto dal nido. Lo curò con amore, gli diede una bella gabbietta colorata, ma il povero piccolo si ricantucciò, non seppe vivere privo dei larghi voli nell’azzurro e verde, un mattino lo trovammo stecchito, cogli occhietti chiusi per sempre. Sin d’allora risolsi di vivere libera. Ed ora sono libera, ma fiacca, inerte. Trovo tutto insulso, tutto vano — perché? II perché della vita?! I miei perché si succedono assai monotoni. È venuto il fratello dell’estinta a ringraziarmi ed a lasciarmi capire il suo amore. No, no… non posso e mi ripugna. Per me è la causa indiretta della morte di sua sorella. Perché non ha fatto l’operaio, il facchino, il muratore? Era assai meglio!

Oggi ho consegnato alla Contessa gli ultimi lavori. Se ella mi dimostrava un poco d’affetto mi buttavo nelle sue braccia e le raccontavo tutto. Ma ella è stata la gran dama gelida e corretta; ed io mi sono irrigidita, ho ritrovato la mia fierezza: al palazzo non andrò più. Mi è sembrato che l’inflessione della voce fosse dura e mi congedasse troppo in fretta. Vi si nasconde la mano di Roberto, è il dolore per il matrimonio sfumato? Perché non me lo ha detto? Oggi mi sento pienamente staccata dalla mia protettrice. Bisogna che mi abitui a sentirmi completamente sola, a rinunciare ad una società che non è pii la mia ed a ricordarmi che sono solamente l’operaia dell’elettrico.

Sono d’una irritabilità cosí intensa che faccio un enorme sforzo per non bisticciarmi con qualcuno. t l’elettricità che passa sui nostri corpi e ci rende irascibili tutti? A me piglia una collera violenta irragionevole, avrei bisogno di schiantare, spezzare, inveire, mordere! Eppure continuo a mostrare il mio viso bianco d’avorio, smaltato di zaffiro e corallo, sorridente come un giorno di primavera. Mi graffio le mani, strappo coi denti il fazzoletto, scaravento le mie conchiglie, ho spezzato due seggiolini di bam-bú… ma quando non c’è nessuno! Si direbbe che mi hanno inoculato il germe dell’idrofobia! Finisco col piangere e le mie lagrime sono amarognole piú del rabarbaro! Vale la pena d’avere la bellezza, la giovinezza, una discreta coltura ed intelligenza per crearsi poi uno stato di cose come il mio! E non so quale alito d’inferno passi su di me! Ora gli uomini tutti mi fanno un effetto strano. I miei colleghi mi destano vampe di desiderio. Quando non sono vecchi o brutti. Mi sentirei spinta a dar loro baci e carezze; ho quindi cominciato un flirt bizzarro. Un flirt silenzioso a base di occhiate lunghissime e penetranti e snervanti con quei poveretti che si lusingano. Si dice che meno la gente pel naso ed ogni tanto mi tengono il broncio, ma poi cedono ad un mio sorriso e tornano a covarmi con lo sguardo affamato. Questa storiella io la faccio con tre o quattro, mentre si lavora. Due occhi s’affondano nei miei che pure s’affondano in quelli. Quelli mi danno un piccolo brivido, un urto piacevole nella carne. Non so a chi appartengano quegli occhi! Non so…, non me ne occupo! Il giuoco dolce continua sette ore deliziando e tormentando, tormentando e deliziando, poi me ne vado ridendo tra me, contenta del mio trastullo, ed avida di baci e baci che pure non accetterei da nessuno, meno Henry. Sogno cose mostruose, sono… traboccante di sensualità che invano tento macerare con le veglie prolungate, col lavoro eccessivo e debbo pur dire la mia vergogna… giungo a desiderare l’amplesso di… Roberto! di Roberto…, l’assassino che debbo odiare! — Sí, ti odio, ti disprezzo, ti maledico; ma chi mai più potrà darmi l’ebbrezza, la voluttà, che tu mi hai dato?

Ed il mio ebbro desiderio mi rende empia, socchiudo gli occhi, gli tendo le braccia:

— Vieni, assassino! Gettati su di me come la belva sulla preda! Stringimi da pazzo, frantuma, stritola, macella la mia carne! Vedi quanto son bella. Solo d’un velo tutta vestita — come in un peplo tutta ravvolta — col filo d’oro stretto alla vita — la chioma morbida tutta disciolta — vieni assassino — coglimi, coglimi, coglimi ora! Calma le mie fibre che s’agitano come le foglie dall’aria mosse. L’onda di fiamma tutta mi stringe, nel desiderio che tutta mi sfida! I denti stretti e convulsi, le mie piccole grida sembrano d’un bimbo il timido lagno… Ma vieni! Ti tendo le mie braccia a supremo invito! Che importa se le tue mani sono quelle dell’assassino; che importa se le tue labbra mandano veleno di menzogna, che importa se hai seminato morte e rovina?! Le tue labbra sanno baciare, le tue mani sanno accarezzarmi, i tuoi occhi sanno ammaliarmi, il tuo sangue sa farmi delirare. Non so, non so pii che cosa sei — se angelo o demonio — so che sei bello, che mi avvolgi nel tuo ardore, che mi dài voluttà sovrumana, che i tuoi occhi sono sí belli, che la tua bocca è sí bella, che il tuo collo è si bello, che il tuo collo è tanto bello, caro, innamorato di me — di me cui suggevi il sangue per saziare il tuo desiderio, mai pago, mai sazio! Mai sazio di me, delle mie carni di tuberosa, di gardenia, di gelsomino. Dei miei occhi di ciel sereno, della mia bocca di fragola matura, dei miei capelli d’oro. Fa’ scempio, fa’ scempio di me! Tortura, tortura la mia bramosia e cerca le sorgive, le sorgive della vita mia! Nelle mie braccia è una forza orrenda! Vorrei… ah! ti vorrei colpire, colpire, con una mazza, colpire, colpire! Colpire la tua testa ricciuta e lanosa di bel moro. Colpire quel tuo cuore scellerato a colpi furiosi… Col piccone ed il martello, come il pioniere… Mio Dio, mio Dio! Ah, come vorrei volare in alto, lontana dal mondo, come la passera solitaria che sfugge ogni rumore e vola in uno sfondo quieto. E poi trillare in gentile nesso col merlo e la capinera — vivere nel bosco tra rovi e felci, roselline e muschio, e nel ruscello bagnare la fronte ardente mentre vi bevono i passeri, i fringuelli, le rondini. E parlare con loro. Perché, perché l’uomo non sa comunicare altro che con l’uomo? Perché non studia il linguaggio degli uccelli, delle bestie? Vorrei abitare nei loro palazzi di verde e di sole. Intendere la loro dolce musica, capire ciò che dicono tra loro! Ci compassionano, deridono, criticano? Io lo credo!

Sono terribilmente bella con gli occhi così illanguiditi. Perdo ore intere innanzi allo specchio a studiarmi, e mi rendo sempre più… temibile! Sono lieta quando vedo l’uomo agitarsi innanzi a me. Mi compiaccio, mi sento nell’animo come Cilly Sicilienne. Poi rido d’un riso tagliente che pare invito, estasi, ebbrezza. Mi diverto a tener l’uomo sotto «incubazione», frase di mia privativa! Lo vedo scaldarsi, incretinirsi, diventare schiavo, ridursi a meno di niente, ed allora provo una cattiva gioia — conscia di questa superiorità su lui, superiorità che equivale ad una leva potente con la quale potrei aggiogarlo al mio carro, se io lo volessi!

Poi questi giorni orridi, pieni di fiamme gialle e di vertigini… passano! Mi ritrovo dolce, tenera, pronta al sacrifizio pel bene altrui. Trovo che Roberto è stato un disgraziato — che una triste fatalità ha aggravato la sua prima colpa, trovo indulgenza per tutti — vorrei beneficare tutti, consolare ogni sventura, stringere il mondo intero in un amplesso affettuoso, asciugare tutte le lagrime, dare la mia vita per tutta l’umanità sofferente. — Mi sento pro-dive ad ogni eroismo, ad ogni sacrifizio. Mi esalto, mi colpisco, mi sferzo, brucio le mie mani sulla fiamma — piango disperatamente vedendo avanti a me tutte le miserie umane! Ed allora ricordo le massime del Dio vivente — la sua povertà, carità — il suo amore per tutti. Allora giro gli ospedali come una suora di carità — visito gli asili dei poveri orfanelli — vivo di latte ed erba e porto il mio cibo ai poveri — leggo libri santi — poi m’inginocchio innanzi alla Croce. — Mi rinnego, mi disprezzo, mi detesto — abborro la mia bellezza, mi sento l’ultima delle creature, il mondo scompare totalmente… tutta la mia vitalità traboccante s’innalza al Creatore, in uno slancio sublime d’amorosa dedizione!

Quest’azzurro d’anima si alterna con giorni di tempesta spaventosa.

Stamane mi sono fermata sul ciglio del letto in una posa di statua, mi vedevo nello specchio dal grifo oscuro. Mi pareva che questo dicesse: Perché non godi la vita? Riprenditi Roberto! oh, quale infamia è questo desiderio! Se prima il nostro amore odorava d’incesto, ora sarebbe abbominevole. Ed Henry?! oh, questi due uomini mi sono entrambi necessari?! Dopo la rottura del matrimonio sono meno rabbiosa contro Roberto, e poi mi dicono che quanto ha fatto per Baldovina, lo fanno anche i medici… tante volte! Se la morte è avvenuta.., non era però nel programma! Come scivolo! Come piego e tentenno! Che misero fusto sono! Di che sono impastata? Quante incoerenze!

Oggi l’ufficio è stato per me meglio d’un teatro! avevo vicino un collega siciliano. Lavorava alla mia destra — sovente, sbirciava me ed io sbirciavo lui. I suoi baffetti nascemi, la guancia fresca come d’una donna, le frangie delle palpebre lunghe ed arcuate in un bel triangolo lampeggiante, il naso aquilino, dalle narici frementi, mi seducevano come i bei frutti freschi di melograno che vedo nell’orto delle suore. Ha canticchiato con grazia delle canzoni siciliane. Mi sono fatta regalare qualche copia del suo giornale. «La canzone siciliana». Il bel morettino continuava:

Ciatuzzu!

Pirchi, ciatuzzu, quannu mi viditi

la facci presta prestu vi vutati?

Si nun m’amati cchiii mi lu diciti parati chiaru chiaru un v’nfruntati.

Io ridevo, trovando graziosissimo quel «ciatuzzu» mi faceva l’impressione d’un bombon quando mi si scioglie in bocca! Credo che il bel sicilianino mi guardasse con un pochino di malizietta! E continuava:

Dicitimi siddè ch’offcsa siti,

cu mia, ca tutta affritta vinni stati

ntra ‘na gnamidda sempre chi chiamiti,

c di seucchiuzzi beddi mi privati.

Allora l’ho guardato con gli «occhiuzzi beddí»!!…

quanno in penza a vui, se mi cricliti,
passo chiancennu puru li nuttati
pinzannu ch’aiu chinu di finiti,
sru cori pri li peni che mi dati…
Pri caricati, vui sula putiti
cu’ sti labbruzza russ’inpurpurati
sanare ad una ad una sti feriti
cu quarchi vasatedda che mi dati!…

Oh, oh! piccolo cannello «labbruzza russ’inpurpurati» non sono per voi! Però confesso che quella dolce poesia primitiva mi affascinava e su quei suoi labbruzzi imporporati come i miei, un istante mi sarei posata volentieri! …

Mi ha parlato con trasporto della sua Sicilia — tutta boschi e giardini — dai prati pieni di mandorli e meli fioriti anche in inverno — dall’arance d’oro, dalle olive verdi, dalle candide tuberose sparse a profusione. Un intenso amore per la sua città gli emanava nella voce e nello sguardo. Ed io ammiravo quello slancio, mi piaceva e glielo ho detto — invitandolo a cantare ancora, così di straforo fra un telegramma e l’altro. Ed egli:

Assira annai a Riggiú cu la luna,

viddi na ficaredda mulinciana.

Lu me curuzzu ai vulia una…

s’affaccia Peppinedda e dice ‘nchiana!

A la ‘nchianada ci ‘nchíanai sicura,

a la scinnuta ci rumpia la rama…

e non cianco no li fica e non li pruna…

chianciu la meghium rama chi rumpia!

Tirolaleddu tirolollà… sugnu baggianedda

stramuttusa e chi a mia murir mi fa!

Oh mio bello Tirolalleddu, mi prometto appena mi sarà possibile di vedere il paese di «ficaredda mulinciana».

Ho riso sino alle lagrime! Grazioso, simpatico, Tirollolà! Poi c’è stato fermento. Le solite lagnanze, chi si lamenta d’una e chi si lamenta di due! Napiero ha detto:

— Sapete, la cancrena è qui — nei superiori diretti! In quanto al Ministero, davvero, vi sono degli eccellenti funzionari — lo so per prova anche adesso — si azzecca la colpa a loro di tutto, invece non ne sanno niente, o sono male informati. — Ecco il guaio! Dan loro ad intendere ciò che vogliono, quegli egregi direttori ed ispettori, il diavolo li porti!

— Qualcuno dei buoni, c’è anche qui — tra loro! — ho detto io timidamente.

— Oh si, la mosca bianca! Uno sopra mille!

— Il Ministero è sempre più o meno turlupinato e naturalmente le conseguenze sono facili a comprendersi! Bazza a chi tocca! E dopo si strepita contro via del seminario che ha il solo torto di berla grossa, lasciando troppo arbitrio ai locali inquisitori.

— Però potrebbe riparare a questi arbitri…

— Sentite, a me accade che…

— Ed io, ed io…

— Il più bello capitò a…

Così tutti hanno da raccontare il caso proprio — ove purtroppo pare sia da lamentare il sunnominato inconveniente. Il congegno è male montato: ecco tutto! Anche Nina Sambise difende il Ministero.

— A Roma sono stata in persona. Anch’io ho trovato persone di cuore, gentili, che trattano con amorevolezza ed ascoltano con pazienza — io non posso che dirne bene — ma quando di qua sono bene imbrogliati… capirete che…

Sono uscita con Nina, che mi ha parlato del suo matrimonio. Il suo dolore è di lasciare la buona vecchiettina sua madre. Ha l’animo traboccante d’amore e crede che potrà conquistarsi l’affetto dei nuovi parenti. Io l’ho scoraggiata, ovvero ho tentato scoraggiarla con mille obbiezioni, ma ella mantiene la sua fede!

— Lo amo Marina, tutto il resto è nulla!

— Quei genitori non ti amano — anzi ti detestano!

– Finiranno con amarmi, vedrai! — Ma! Speriamo.

– Devo correre per tante cose, devo fare tutto io! Se tu sapessi che fatica per ottenere un poco di denaro dai miei zii orsi! Poi ho fatto un debito. Col tempo mi accomoderò…!

— Sei sicura che ti ama, il tuo «Lui».

— Se non mi amasse perché mi sposerebbe?

– Già, è vero. Non vi pensavo!

Sono oggi tre mesi da che salivo queste viottole coperte di neve per recarmi all’appuntamento con Roberto! Sono oggi tre mesi dalla mia ultima follia e dalla confessione di Rob. Allora salivo con animo sorridente malgrado la scoperta del fidanzamento. Pensavo di lottare, di ammaliare, soggiogare e vincere. Mi sentivo lo spirito leggero — le ali pronte al volo. Ed ora vado col passo più peso, il viso smorto e senz’espressione — faticando nella salita, tormentata da un lungo dubbio che l’infame Conte di Brighten sia stato profeta nella sua triste previsione! Il mio cuore è gonfio come quel ruscello per il disgelo delle nevi. Alcuni ragazzi hanno acceso un bel fuoco con le foglie morte.

Ah, che voglia ho d’appiccar fuoco al Castello di Brighten ed alla mia ex villetta dai kundsu e contemplare l’incendio dall’alto della torre… come Nerone!

Tutti i viottoli sembrano di cuoio bulinato, le foglie secche vi disegnano rosoni e meandri, qua e là tinte turchi-nicce, violacee, rossastre e piccole ramificazioni giallastre, stentate; nelle siepi rimangono gli spini aguzzi, umidi ed irti. I miei nervi sono sufficientemente calmi ed ho un pensiero per la povera Matilde che mi consigliò quel… giorno.., a non far corbellerie!

Sono quasi rassegnata alla… conseguenza! Bisognerà espiare perché la corbelleria la feci!

Sentivo il tepore del suo viso sul mio petto. Mi ascoltava, poi mi palpava, poi ascoltava di nuovo ed ancora palpava il mio ventre. Dal canto suo doveva sentire il mio dolce profumo d’acacia, di fieno e di giovinezza. Ho veduto il suo imbarazzo; non osava parlare! allora con uno dei miei scatti, rizzandomi dal duro lettuccio ho gridato pallida ed ansante:

— Sono madre, sono madre?! Rispondete dottore! presto! dite, non temete, io sono forte —. Ed egli guardava il mio visino smarrito e livido con occhi buoni ed indulgenti. Esitava, io insistevo. Finalmente ha risposto:

— Forse lo siete, ma ancora non posso darvi un giudizio sicuro…

Allora sono caduta ginocchioni, così… in camicia come mi trovavo, col viso nascosto tra le mani ho singhiozzato, scossa da tremiti convulsi, con gemiti fiochi di bestiola ferita. Sentivo confusamente le parole di conforto del dottor Steno, mi pareva che la terra si aprisse e mi ingoiasse piano, piano, e mi coprisse del suo oscuro manto; mi rinchiudevo là, rannicchiata, senza più sapere chi era, che cosa facevo, e se vivevo! Non sentivo un dolore disperato, perché giorno per giorno mi ero quasi preparata a questa triste fatalità, sentivo soltanto che ero una creatura finita, divelta! E quel piccolo fiorello che nascerebbe da me… l’avrei amato, l’avrei odiato, l’innocente?!

Il dottore mi ha sollevata come si fa coi bambini, mi ha aiutata a vestirmi, mi ha fatto bere un bicchiere di vino generoso, sforzandomi affettuosamente a rianimarmi… — poi senza saperlo mi ha suggerito la menzogna:

— Quella notte triste in cui vi trovai svenuta al Crocevia dei Rossi, forse un miserabile vi aveva usato violenza? Parlavate d’un assassino, canaglia, di signori…

Allora mi sono aggrappata a quell’idea; vi ho lavorato intorno magistralmente, persuadendo me stessa, convinta di dire la verità! Qualcuno mi aveva fatto violenza! Parlavo d’un assassino!? Tutto calzava magnificamente! I miei occhi hanno avuto un bagliore sinistro… Fissavo uno scaffale pieno di istrumenti chirurgici, ma v’era più metallo nella mia pupilla che in quelli…: oh come ho simulato! L’indignazione per l’oltraggio, la lotta, e l’odio! Era la prima donna che rappresenta la sua parte studiata da lungo tempo — io invece, l’improvvisavo! — Povero buon dottore, egli ha creduto tutto! La mia testa d’angelo conserva tale espressione di candore che è impossibile non credermi.

Sono rimasta colà qualche giorno, simpatizzando con l’allegra casetta rossa, dalle persiane verdi; coll’orto e il giardinetto, trovandomi bene in quella quieta vita di campagna, come nel paese di Nina.

— Siete ancora bambina, come farete ora? Che progetti avete?

Il dottore mi interrogava con una certa ansia! Eravamo seduti sotto un pesco che già mostrava qualche rosea gemma, una delle quali era caduta sul mio capo. Mi teneva stretto la destra e studiava il mio viso con inquietudine. Ho appoggiata la mia testa sulla sua spalla, come l’avrei lasciata su quella di mio padre:

Contate su me, completamente, come l’amico oltre che il medico — egli mormorava. — Mi fate tanta pena, povera bambina! — Parlava come un vecchio, invece era ancora un uomo simpatico dall’aria giovanile. Il lauro verde lucido, ci isolava dal caseggiato col suo macchione scuro quale baluardo innanzi a noi, I pulcini ancora d’un giallo tenero raspavano nel terriccio, l’acqua gocciolava da un piccolo pendio tra pietroni grossi invasi dal muschio e da vecchie edere, e i pini mandavano sottili ondate di profumo, più in alto sentivamo i colpi d’accetta d’un contadino, í boati del bestiame al pascolo ed i nitriti del cavallo. Mi sentivo immersa in un dolce benessere… il mio intenso bisogno d’affetto di nuovo mi dominava, quindi guardavo il dottor Steno con indicibile tenerezza: Quanto siete buono con me! Bisogna che io vi abbracci, perché vi dico addio per sempre! — E l’abbracciavo stringendolo con quella smania che da piccola afferravo il collo dei miei parenti. Egli, tremando, stacca il mio viso dal suo e dice con affanno: — Perché mi dite addio per sempre?! Io non volevo usare una frase da melodramma. Con gli occhi bassi, il respiro frequente, ho detto semplicemente: — Non mi resta che… andarmene! — Mi ha capito subito! Allora l’ho veduto sussultare, poi concentrarsi, indi con dolcezza mi ha detto all’orecchio: — Se osassi offrirvi di dividere per sempre la mia solitudine e d’amare il mio Giorgino come amerei il vostro bambino, accettereste?… Era ciò che speravo io… Allora.., sentite dottore! Una gallina ha cantato; ha fatto l’uovo; venite.., andiamo al nostro pollaio, dico nostro! Sapete che sono terribilmente ghiotta dell’uovo caldo, preso da me, nel nido…! E correndo come due fanciulli abbiamo dato la scalata al pollaio, bevuto l’uovo caldo, poi del Malaga e mangiato le ciliegie bianche sotto spirito. Improvvisamente ilari, festevoli, di tutto dimentichi. Mi sentivo difesa, in un asilo sicuro, di pace e di affetti.

Ho regalato il quadretto di zucchero alla bella giumenta, mi sono divertita a dare il becchime al pollaio, oh io diventerò una brava mistress! Perché ho detto mistress e non signora?! Non so, non so… Pure il ricordo di Henry è un po’ sbiadito. Da lui non ebbi che poche cartoline, acquarelli insignificanti. Nondimeno, in certe ore, mi appare blando e carezzevole, insieme a Roberto violento ed assetato d’amore. L’uno appaga la mia anima, l’altro appaga i miei sensi. Entrambi sono in me, li sento nel mio cuore e nella mia carne. Eppure… sposerò il buon dottore Steno! Sarò una sposa onesta, una buona madre? In certi momenti sono presa da uno strano terrore; come saprò dare il mio corpo ad un marito che amo solo di riconoscenza? E poi: Come dare alla luce un figlio? Io! Ma come avviene, che succede in me, mentre non mi trovo per nulla cambiata? Che spavento! Chissà quale orrore diventerò!

Poi ho degli impeti di gaiezza forsennata! Lascierò l’ufficio, non avrò più il pensiero dell’indomani… «Baggia-nedda, Tirolaledda, tirolalolla! Stramuttusa, stramuttusa, — son gli ultimi giorni, poi pianto baracca e burattini, — assira annai a Riggiú cu la luna». Un bell’accordo per l’arpa… allegro Totillo, addio camera azzurra, non ci vedremo più! Tirolaleddu, verrò da voi nel mio viaggio di nozze!

— Che hai, Nina? Ancora ostacoli? Perché piangi? — No, no, ora è tutto pronto — ma sai — un’infamia, hanno commesso un’infamia a mio danno. Una lettera anonima a mio suocero, ove si dice ogni sorta di bricconate contro di me, che ho saputo resistere a tutte le sofferenze e tentazioni. Tu hai visto la nostra miseria! Ho dei nemici e si vendicano! — O poverella non ci pensare; ma hanno creduto i tuoi futuri suoceri? — Non so, ma certo la cosa mi nuoce. Prima mi osteggiavano velatamente. Ora il padre scrive così a proposito del suo consenso: «Chi vuole impiccarsi s’impicchi, ma io non fornirò mai la corda! »

Incominciamo bene.

— Mi fai ridere! Ma piantalo, lascialo perdere, così il signor «Impicca» sarà a posto!

— Mi dài un bel conforto!

– Ma quell’«Impicca» mi pare un volpone! La lettera sarà una… volpe!

— Credi? Pensare che prima del fidanzamento mi dimostrava molta tenerezza, mi diceva: Pensi che ha in me il suo miglior amico! Ed accettava le confidenze dei nostri

piccoli dissapori.

Era piena di speranza…

— Fede e carità.

— Precisamente!

– Non t’inquietare! Sono in vena, prendo marito anch’io e farò più presto di te che ti lambicchi da qualche mese! Io pianto il telegrafo, addio cinematografo, me ne

vado! Hai capito?!

— Scherzi?!

— Non scherzo!

— E chi sarebbe lo sposo?

– Un dottore, una perla di dottore!
— Il fratello di Matilde? me l’aspettavo.

– Niente affatto!

– Allora?!

– Allora sposo il dottor Steno, medico a X pochi chilometri dalla città… Egli è vedovo con un figlio.

— Come, come? Ma pensaci, diamine! con un figlio?!

– Ho già pensato, fa che non vi pensi più!

– Oh bella! Ma perché lo sposi? Lo ami?

— Se lo sposo!!…

Ella mi ha fatto una lunga e saggia filippica ed io di rimando:

— Tutto è inutile! Ne amo due, e dei due litiganti il terzo gode!

– Ma sei pazza? Tratti cos í leggermente il tuo avvenire? t tutta la vita che impegni, rifletti!

Poi ci siamo abbracciate. Ella ha intuito un segreto, ma ha taciuto:

— Che fanno i tuoi amici blasonati? Mi ha chiesto.

Ho trasalito:

— Faranno niente, al solito!

– Oh la mia mamma, la mia mamma! Quanto mi è doloroso lasciarla! La rimpiangerò. Sí — lo so. E tu non rimpiangerai qualcuno? Non precipitare, per non pentirsi

troppo tardi… — diceva Nina tra le lagrime.

Allora un’angoscia profonda mi ha soffocata. L’odio, l’amore, il desiderio, lo spavento, tutte le emozioni dei giorni passati mi hanno dato una crisi nervosa, mi sono dibattuta come un’epilettica:

Tientelo il segreto che hai, — mi ha detto Nina, — ma ricorda all’occorrenza che in me troverai sempre un cuore riconoscente ed affezionato.

Poi è fuggita — chissà più quando ci vedremo!

O mio caro piccolo teschietto d’avorio, per quanto tu sia il Memento continuo di ciò che diventeremo non sei più sufficiente a trattenere i miei miserabili sensi — il mio cuore perverso. Passo ore intere a pensare a Roberto — mi pare che sia li! Bello nella sua divisa, colla riga di carne più bianca in fronte e che gli occhi tentatori mi scendano a dare un delizioso tormento — vedo il suo profilo perfetto — il piccolo orecchio tante volte lambito e baciato: carezza che lo rapiva.

Mi metto intorno a quella conchiglia vivente — vorrei entrare per quella via e baciare il cervello che pensava a me — Marina sua! — Ed Henry! Caro Henry! Ecco il suo anello — l’anello di sua madre — i fiori secchi — le cartoline. Egli non avrà potuto piegare suo padre al proprio desiderio, ecco perché tace. Tanto meglio!

«Io fiore del campo, e giglio delle valli, come il giglio in mezzo alle spine, così la mia diletta tra le fanciulle. Fino a tanto che il giorno spunti e le ombre declinino. Ritorna: sii tu simile, o mio diletto, al capriolo e al cerbiatto sui monti di Bether».

Oh mia povera Bibbia, io ti offendo! Leggo e sogno! Dottor Steno, voi sposate una delinquente morale! Il Padre D’Orelles mi ha ricevuta nel grande salone, ove i ritratti di tanti papi guardano dall’alto, maestosi e gravi — dando soggezione e sgomento. Un sant’Ignazio in grandezza naturale mi impressionava — come fosse una terza persona presente. Dalle grandi invetriate dai vetri a soggetti biblici passava la luce a stento, una luce a diversi colori — rossa, viola, verde, biancastra. Il reverendo sedeva innanzi ad una piramide d’antichi libri riccamente legati. Nella destra teneva una penna d’ebano e pareva immerso nella soluzione di un grave problema. Io mi sentivo un poco imbarazzata… Mi ha osservata con le sue pupille lampeggianti — mi ha avvolta d’un’occhiata sommaria per tutta la persona — in fine, poiché tacevo, mi ha domandato con tono di voce amorevole: Che volete, figliuola mia? Parlate — siete capitata opportunamente, poiché anch’io doveva conferire con voi. — Reverendissimo, La ringrazio. Son venuta a sollecitare il suo consenso per il mio matrimonio col dottor Steno, medico condotto a… — ho detto rapidamente. Alle parole «matrimonio» l’ho visto a trasalire, poi ha abbassato lo sguardo sopra alcune cartelle scritte da un pezzo, a giudicare dal colore giallo della carta. Il dottore verrà di persona a sollecitare il suo consenso, Reverendissimo Padre, sempre che Vostra Reverenza lo permetta… Egli si è alzato in piedi, mi pareva in collera — poi con voce un po’ alterata e dura: — Poiché volete sposarlo, mentre amate Roberto di Brighten? — Mi ha domandato. Ho creduto che una voragine si aprisse sotto í miei piedi! Il mio sgomento lo h2 reso più dolce: Ritornate calma, non ve ne faccio rimprovero: soltanto dovete dirmi perché volete sposare quel dottore:

Via, perché non rispondete?! — La voce tornava imperiosa.— È necessario che io lo dica? — ho balbettato. — Sposando il dottor Steno mi tolgo da un ambiente e da una situazione… — Che voi avete voluto assolutamente, e che voi non avete trovato disagevole come gli altri! — ha completato interrompendomi con inflessione d’ira.

— È vero, è vero, Reverendissimo Padre… ma… — V’impongo di rispondere, sinceramente, senza riserve, non temete… parlate, Marina… parla Rina! Quand’ero bambina mi chiamava così Rina! e mi dava dei dolci. Sono scoppiata in un pianto dirotto e precipitata alle sue ginocchia — scossa dai singhiozzi — non potevo assolutamente parlare… Il tono affettuoso aveva spezzato la selce del mio cuore. Mia povera piccola, quietati — che hai fatto, che c’è dunque? Mi agiti — presto, toglimi da questa pena — vedi quanto mi accori?… In quel momento mi è sembrato come un padre; ho preso dunque tutto il mio coraggio, e sempre curva ho detto le due terribili parole… Sono madre! Tremavo! Egli mi ha scossa come a schiantarmi, come si scrolla un alberello debole perché crollino i frutti… Dite che non sono pazzo! Che mi avete detto?! Voi, madre!? — Sono madre!! — La mia voce era un soffio! — ripetevo, come un triste ritornello: Sono madre! Ed il padre sarebbe questo dottor Steno?! — No, no! Reverendissimo! — Allora… allora.., che mi dite, che mistero è questo? Decidetevi a dire tutto. Voglio saperlo — intendi? Voglio! Il nome del padre?! — Roberto di Brighten! (L’ho buttato quel nome come si lascia cadere un piombo!) Credevo vederlo pii adirato scagliarsi furente su me!… Invece mi ha preso la testa, mi ha dato un bacio sulla fronte mormorando con tenerezza: — Ora mi liberi da una grande angoscia. Su, povera cara — niente dottor Steno. Tu sarai Contessa di Brighten È toccato a me di trasalire. Come, come?! Padre Reverendissimo? Io, Contessa di Brighten? Impossibile, impossibile! — Egli era improvvisamente raggiante, illuminato da un’espressione d’affettuosa letizia che trasformava i suoi lineamenti.

— Perché impossibile? — mi ha domandato in un tono strano che non riuscivo a giustificare.

— Anzitutto la mia povertà!…

– Non sei tanto povera! — ha risposto sorridendomi, con aria intraducibile.

– Non mi pare il caso di celiare! — ho replicato con risentimento.

— Difatti non è il caso — ma poiché non sei povera, debbo ben dirti questo — non ti piace non essere povera?!

— Che significa? — Non sapevo che rispondere — eppure ben sapevo che ero poverissima… un’impiegata… quasi un’operaia. — E non sono povera, Reverendo Padre? E non celiate? Che debbo supporre?!

Parlavo con amarezza.

Allora egli si è allontanato un momento— poi è tornato con una grossa busta di pelle nera suggellata con lo stemma dei D’Orelles. Mi sentivo agitata, senza capire nulla. — Il Padre D’Orelles rompeva i suggelli silenziosamente. Indi, voltatosi verso di me — mi sembrava pii alto e maestoso — mi ha detto con dolcezza:

– Come vi sentite? Potete sopportare un’emozione? — Lo posso, Reverendo Padre.

– Bevete un sorso d’Alicante: sedetevi: ora siete una donna e saprete comprendere le debolezze altrui. t vero?

  • È vero, Padre Reverendo.
  • Lasciate un momento il «Reverendo». Io sono… vostro zio paterno!

Il bicchierino d’ALicante è caduto dalla mia mano — frantumandosi sul ricco tappeto:

— Lei!… Voi… mio zio?! Padre D’Orelles!

— Calmatevi, altrimenti non saprete altro, per oggi!

La notizia era ben tale da far perdere la calma, nondimeno ho saputo mostrare un viso fermo, semplicemente meravigliato, mentre il cuore mi pulsava veemente.— Sono calma… zio! Va bene?— Sí, va bene; in questo momento ed anche nelle occasioni future sono zio… ma è inteso che pel mondo voi continuate ad essere Marina De Marinis, in attesa del nome dei Di Brighten…. Ora leggete quest’atto di nascita, questo di adozione, quest’altro che vi costituisce erede, alla vostra maggiore età, d’un patrimonio di cinquecentomila lire. Questa è la copia dell’atto che…Non ho più veduto né udito altro, perché ho sentito un gran ronzio entro le orecchia, una grande nube oscura è venuta contro ai miei occhi; ho capito che cadevo come morta… t stato un momento di debolezza, ma mi sono tosto riavuta.Il Padre D’Orelles mi guardava, incerto se proseguire o no la sua rivelazione:

— Mio fratello si fece prete non per vocazione — ha continuato dietro la mia insistenza. — Fu un prete disgraziato, un’indole impossibile alla sottomissione, tuttavia pel suo brillante ingegno fece rapida carriera. Due anni prima della vostra nascita egli era confessore… (le altre parole me le ha dette pianissimo all’orecchio), non posso dirvi chi è vostra madre, sappiate che ha espiato crudelmente il suo fallo e che potete pensare a Lei con venerazione ed affetto…

— Non volete dirmi il nome di mia madre?! — ho chiesto con disperazione.— Mi è vietato, figlia mia, non posso dire una parola in pii!…

— Ma vive ancora? Almeno ditemi questo! — Non posso dirvi nemmeno questo! — t una barbarie! — Mi ribellavo a quel divieto e glie ne ho dette tante! Ma ho ben capito che tutto era inutile! — Allora ditemi come diventai figlia adottiva dei coniugi De Marinis, potete dirmi almeno questo? — Ho chiesto con dolore e sarcasmo:

– Posso. Mio fratello, lasciò tosto la Corte di… Dopo la vostra nascita si recò al Giappone ove riprese abiti secolari. Calcolava di dedicare a voi tutta la sua vita. Ma avevate appena quattro anni ed eravate a bordo della… quan-d’egli infermò gravemente. Il capitano Germano, sua sorella e l’avvocato De Marinis s’erano affezionati a voi. Domandarono di adottarvi nel caso della sua morte e fu cosí che diventaste Marina; questo nome… Marina vi fu dato in omaggio al mare! Per vezzeggiativo, ma il vostro vero nome innanzi a Dio è… Cristiana Rosita D’Orelles.

Nel testamento di vostro padre siete cosí nominata. Ora sposerete Roberto di Brighten e ritornerete nel vostro rango… secondo il nostro desiderio. — Poi mi ha dato altri schiarimenti. Allora io ho pregustato una piccola vendetta. — Ah non mi voleva dire chi era mia madre! Ebbene ecco:

– Zio non posso sposare il Conte di Brighten, già ebbi l’onore di dirvelo.

– Cioè?! — le sue sopracciglia aggrottate mi sgomentavano un poco.

– Sia pure eliminata la difficoltà della mia povertà come voi dite, rimane questo: Roberto è un assassino ed è rovinato! — Speravo vederlo confuso, per lo meno attonito e rattristato — invece ancora mi ha voltato le spalle per un attimo, poi mi è sembrato di vederlo contento. Tornava verso di me, per la seconda volta esultante…

– Guardate! Tutte le cambiali di Roberto, eccole, contatele, sono per un milione e novecentomila lire, osservatele.

– Ah! ma come, come! che significa? Chi ha pagato?! — ho esclamato con veemenza.

— Io ho pagato, non cercate di comprendere, sarebbe inutile, vi basti sapere che non mi varrò di questo credito che dopo un secolo. Voi non vi sarete piú, e nemmeno io… ma… vi sarà…

— La Chiesa, la Chiesa?! — ho gridato, intuendo subito…

– Sì… la Chiesa! — ha risposto con una specie di orgoglio e di compiacimento.

— Che è il vostro solo amore zio? — È cosi.? — perdonatemi! — ho detto arditamente.

— Noi siamo coerenti, ma non parliamo di questo, figlia mia. Ciò che voi chiamate assassinio è una follia di gioventú, lo so! Quindi ecco tutto appianato. Roberto vi adora. È venuto a confessarmelo — subito dopo la rottura con Miss Dolly De Liverstone — e mi ha pregato d’interpormi e perorare in suo favore — sposalo, Marina! Ciò corrisponde pure ai miei segreti disegni. Tu sei una D’Orelles, tu devi servire la Chiesa in un modo o nell’altro! — Sí dicendo i suoi occhi mandavano faville illuminando quel viso di bronzo. Egli era raggiante di fronte al suo ideale come io lo ero nei primi momenti del mio amore per Roberto. Ma come avrei servito la Chiesa diventando Contessa di Brighten? !!…

— E cotesta ricchezza che mi annunziate e di cui non so convincermi è vincolata da qualche clausola?

– Nessuna, o quasi.

— Quindi potrò disporne?

— Lo potrete dopo le dovute formalità…

– E voi m’avete lasciata povera sin qui — avete permesso che facessi l’impiegata!? — ho soggiunto con espressione di rimprovero e di meraviglia ad un tempo.

– Certo; l’uomo per essere forte deve saper vivere da povero e da ricco. La povertà ed il lavoro sono una tempra per i caratteri. In fine la vostra povertà era relativa — dato l’assegno mensile — la vostra amicizia con la Contessa. Avete sofferto per povertà?!

– No… è vero.., ma ho veduto da vicino molte miserie, ho conosciuto la vita, nei suoi lati pii tristi ed ho fatto quel che ho fatto! Vedete bene! — Abbiamo poi parlato sommessamente e mi ha strappato il consenso al matrimonio:

– Volete dunque che vostro figlio sia anch’egli un bastardo, conosca mai suo padre e soffra come ora voi soffrite per il desiderio della vostra vera madre?!

— Ma che diranno i De Liverstone? — chiedevo — afferrata da quell’angoscia al pensiero di Henry, di Dolly. — Ah è impossibile, zio, impossibile!

— Ma pensate a vostro figlio! Che v’importa dei signori De Liverstone? Neppure si ricorderanno più di voi e del matrimonio sfumato!

Già, Henry taceva. Non mi ricordava più?! Ho acconsentito! — Ah, chi mai poteva pensare cotesta soluzione? Era sbalordita, incredula, semi-incosciente — mi pareva d’essere in sonnambulismo! di fare un sogno strano!

Convenuto che a tutto pensava Padre D’Orelles, io non avevo altro compito che ritirarmi col buon dottor Steno.

Quando sono rientrata nel mio piccolo appartamento era come un’idiota. Mi pareva d’aver fatto uno di quei sogni strani che vi tengono oppressi tutta una notte e vi danno un senso di benessere al risveglio. La ricchezza che mi pioveva sul capo all’improvviso non mi dava che stordimento.

Poscia guardando le fotografie dei miei buoni genitori adottivi mi sono intenerita: Ritta in piedi, assorta nella loro contemplazione, con gli occhi pieni di lagrime mi pareva che una seconda morte me li rapisse! Provavo lo stesso dolore di perdita, la stessa effusione d’affetto.

Quanto tempo sono stata in quella posa in muta estasi non so dirlo, parevo magnetizzata, costretta a quella contemplazione come uno scambio d’amore con quei miei cari che, genitori o no, erano stati per me più che buoni ed amorosi. Mi sono quindi abbandonata sulla mia vecchia chaise-longue che ha visto tutti i miei abbandoni, i miei sogni, i miei trasporti, le mie ebbrezze, i miei deliri. Come fosse una dolce sorella, colla bocca su di lei come sopra una bocca amata, le ho detto tutto ciò che passava nell’animo mio: — Sono una bastarda, una ricca bastarda, urfibrido impasto, nella mia carne c’è il prete e la gran dama, ed ecco come spiego tutte le mie bizzarre contraddizioni di sentire! Chi, chi, quale potenza può mai levarmi d’addosso questa mia miserabile miscela scaturita da un sacrilego connubio? Ah, io vorrei sottoporre il mio corpo ad una macabra operazione: Disseccarmi fisicamente sino allo scheletro, sottoporre quest’ultimo ad una altissima corrente di calorico, che entrasse in ogni mio atomo e modificasse tutta la mia miserabile materia!

Mi sono inginocchiata sulla pelle d’orso bianco, mi sono curvata, umiliata, deridendomi e compassionandomi — deridendo la mia stolta bellezza, compassionando la mia miseria morale. Ora dovrò affliggere un uomo nobile e generoso come il dottor Steno. Poi presto o tardi i signori De Liverstone verranno a conoscere il mio matrimonio con… l’assassino di Baldovina e di suo padre! Mi disprezzeranno, mi crederanno un’imbrogliona col mio spiritismo di opportunità ed io non so come potrò resistere alla loro presenza. Il ricordo d’Henry, del suo amore delicato e rispettoso, mi avvince come un rimorso. Henry penserà che ho rubato il fidanzato a sua sorella, che ho civettato con lui per progetto, ed avranno ragione di togliermi la loro stima che mi era sí cara. E la Contessa? E tutto il suo entourage! Come mi accoglieranno?! Sarò umiliata?! Conviene che mi prepari a molte emozioni. Mi sono messa innanzi al mio grande specchio, mi sono guardata e studiata: Sono sempre io! E come, come avrò in me un essere che sarà poi un uomo od una donna e crescerà ed avrà i miei capelli d’oro o quelli di lana crespa di Roberto, e parlerà, mangerà, sentirà tutto come sento io?! Mi pare impossibile! Io rimango sempre la stessa, gli occhi di ciel sereno, la bocca di fragola, la carne di tuberosa, la persona alta e slanciata e dunque, e dunque?!

Questo mistero mi fa tremare e mi pare inverosimile che io sappia fare… un figlio! Ah! se Roberto non avesse quella colpa… potrei dire almeno che si realizzano i miei sogni antichi. Riavrò la mia antica villa sia pure trasformata in oratorio… Quando penso che vi è annesso un bel castello e che sarà mio posso accontentarmi! Da che ho messo a Padre D’Orelles che accetto Roberto, mi pare di aver preso sulle mie spalle una parte dell’assassinio! Baldovina verrà sul nostro letto nuziale, dai suoi occhi usciranno fiamme, il suo indice bruciante s’appunterà sul mio capo… bruciandomi il cervello e la sua voce d’oltretomba mi griderà: Ladra! Ladra! Ladra!

Dio mio, che orrore! E se tutta la storia di Valentini fosse un effetto d’autosuggestione e fantasia? — Comunque bisogna che io vada, assuma informazioni. Qualche cosa mi spinge, assolutamente… Occorre che io vada a Venezia un’altra volta!

Addio Camicia-azzurra, povero il mio bimbetto sconsolato, Marina, ossia Cristiana-Rosita, non sarà più qui a sorriderti — però si ricorderà di te in avvenire, addio caro orto delle suore con i bei melograni e le tante rose, addio vecchio giardiniere. Addio rondini del cielo… Tra poco dovrò andarmene e tornare nella schiavitù dorata, come un tempo. Ancora etichetta, fastidi e ricevimenti… a meno che non lanci un nuovo sistema, o mi isoli in un altro pied-à-terre, presso Roberto — noi due soli — quando non sarò sola per la sua assenza… sola… come quella nuvoletta lassù… che sembra un pezzo di garamantite, il diaspro sanguigno che anticamente si usava come amuleto.

Il mio ciclo procurerò restringerlo, eviterò il gran mondo, senza esagerare come la Contessa. Entro oggi darò le dimissioni, poi starò a casa subito come ammalata. Dopo tutto ero affezionata all’ambiente che ha il suo lato triste ma anche quello geniale: Sommariamente gente simpatica, uomini e donne… E le figure più eminenti non le dimenticherò. Pardovva, Napiero, Sambise, Mariani… Omberecais vi verrò a salutare per l’ultima volta ed ancora si dirà: — Ecco una fortunata! Il cavicchio… il cavicchio della fortuna! — Se ne parlerà un po’.

Al dottor Steno ho scritto una lunga lettera commovente.

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