Oh santa Teresa, se fosse vero che colla pazienza tutto s’acquista, vorrei farvi un altare, ve lo prometto!
In ufficio tutte mi guardavano con curiosità: ma nessuna mi ha chiesto perché ho preso due giorni di permesso! Matilde mi ha detto che suo fratello ha gli esami di laurea, ciò segna forse la fine dei suoi sacrifici… Nina Sambise è raggiante, mi dice con entusiasmo:
— Ti farò conoscere il mio fidanzato! Chi mai immaginava che gli esami mi portavano il marito?! Ora bisogna riprenda mamma. — Vieni? Non vi saranno le famose susine, ma ti divertirai lo stesso. Ti compenseremo coi tortellini di nostra esclusiva specialità! Sai, Marina, sposo un uomo bello, buono e simpatico, ti avverto! Ah quanto gli voglio bene. — Adesso bisogna che io guarisca perfettamente. Voglio essere forte, devo star bene, per lui! Ella è contenta, ed ora io sono triste! — Vorrei dirle tutto: sfogarmi, ma non oso. Rina Darelli è esultante perché il suo Vivy prima di partire ha giurato al padre cieco che manterrà la parola data. — Ecco un’altra che forse sogna come ho sognato io… e s’illude! … Napiero, la bella quaglietta, è adirata per i congedi dell’anno venturo: — Sicché dovrei andare alla Porretta nel mese di febbraio o di novembre!? Che gabbia, che gabbia! (traduci di matti!) — Senti Gigi, che buffoni…
Il fidanzato sorride. — Gli altri tacciono, sanno che Na-piero ha il cugino dalle lunghe braccia… Pardovva è indignata per un sussidio negato alla povera Bardazzi, ammalata da sei mesi. — Che vergogna! Si danno alle…, alle…, ai…, ma a chi soffre davvero, danno un corno! — dice con collera e sdegno. — Doveva farsi raccomandare! Senza una spinta, nulla s’ottiene, — risponde un’altra. — Bella giustizia, bella umanità è questa!
— Taci, Nina, se no t’azzannano!
Io mi sento mortalmente abbattuta. Cammino stanca come un’ammalata. Vorrei essere morta e sepolta! Mi trovo senza speranze, tutto chiuso intorno a me, nessun scampo! Roberto è rovinato! Che posso più fare con questo colpo che atterra di botto ogni illusione, che ostruisce ogni via…?
Non sono più che una povera pietruzza, un lapillo, un frammento inutile, senza valore.
Aprimi il cuore, o gran terra madre Aprimi le braccia, o gran terra madre Dammi il tuo bacio fresco…
Prendi il mio bacio caldo…
Così mormoro una triste cantilena che io ho composto e pare una marcia funebre…
Sfascia tua mole — disgregati, dilatati! Che io veda l’ossa di tutti i miei cari, che in te già riposano; fa che unisca a loro la mia vita fiaccata perché sulla terra più nulla mi rimane! — Cosí pensavo e doloravo sfinita, vinta!
Sulle ciglia mi tremolava una piccola lagrima quando ho incontrato l’avvocato della Contessa. Da lui ricevo notizie di tutti. La Contessa riapre il palazzo lunedí: — Vi sarà la solita festicciuola del ritorno, ha detto l’avvocato e data l’epoca inoltrata verrà forse anche il Contino Roberto. — Verrete anche voi, non è vero? E l’arpa? Che fate ora colla vostra arpa ed il vostro telegrafo? Siete pure una brava e strana fanciulla! — Perché non rimanere tranquilla con la Contessa invece di sacrificarvi in un lavoro non adatto per voi?! — Ci suonerete qualche cosa di nuovo?!
Non so che cosa abbia detto ancora. — Per me bastavano le parole «verrà forse anche il Contino». Ah caro avvocato, da questo momento mi diventate simpatico! Ho benedetto quell’incontro. — Ora ho il tempo di prepararmi. — Altrimenti sino alla vigilia della festa non avrei saputo nulla, perché con me non si fanno complimenti, s’intende! Ho dunque cinque giorni da spendere! Denari non ne ho disponibili per farmi un abito nuovo! — Dalla rabbia i fusetti del mio tombolo, li ho tutti scompigliati, intricati ed arruffati come i miei pensieri! Il mio fuocherello scoppietta; verrà altra neve! Suona l’orologio della torre. Prima di coricarmi mi diverto ogni sera a consultare le carte che mi predicono il destino! Le carte, lo spiritismo, siete una vera Sibilla, mi dice sempre la signora De Ferronis — che mi utilizza come Sibilla per i suoi affari di cuore…
— A me trovate quattro numeri pel lotto, bellissima Sibilla, — domanda talvolta l’avvocato De Fanti!
Così, con le carte mi nacque l’idea dell’eredità e del matrimonio col forestiero! Vedo, ecco, vedo Roberto che mi pensa: due vecchi mi desiderano, poi ancora il matrimonio, ma rimane fermo. Del sangue, molto sangue… in me… Una morte tragica! Vedo una dama ricca incoronata che pensa con molta tenerezza a me, ed è lontana, tanto lontana! … (cosí parlano le carte).
Se fossi qui, direi che è la contessa, quantunque creda poco alla sua grande tenerezza! — Lascio la cartomanzia perché mi fa rabbrividire! Ed ho paura, stassera.
È una sera tetra — sognerò qualche cosa di spaventevole. Sento nella parete un tic tic come d’orologio — dicono che muore una persona cara. Superstizioni, si sa che sono i tarli, tuttavial… E quel lumino acceso nella cappelletta delle suore, in fondo all’orto, pare un sepolcreto! Le buone monachelle staranno pregando Iddio clemente. — Oh anch’io pregavo tanto, ma ora, è molto se brontolo un Pa-ter-noster. È un gran buio in quell’orto e l’assiolo non canta piú.
Rabbrividisco. — Quanta desolazione in tutto! Io mi sento mancare la vita — pare che un vampiro aspiri tutto il sangue dalle mie vene. Il vento sibila. — Sembrano gemiti rabbiosi, grida di schianto, la terra soffre un secreto tormento come soffre il mio animo! La volta azzurra invece è calma, pacata: Le stelle brillano con soavità. Amano tra loro? Sognano ebrezze come noi mortali? O volta fredda stellata sembri di marmo e t’invidio. — Vorrei non sentir nulla. — Reggermi calma, impassibile come te — ma nel soffio furente della passione io grido, sento lo schianto, sento il tormento! Hanno sradicato il mio cuore — come quel povero fico delle monache, sono divelta! Almeno colà vi sostituiranno delle rose, invece a me, sono spini, spini e che spini! Come lottare contro un patrimonio di milioni!? E poi? Se Roberto è rovinato! — Così mi ripeto e mi sprofondo in un labirinto di ipotesi e congetture, per ricadere fiacca e sfibrata. — Ho preso una tazza di tè con molto latte caldo — poi mi sono scaldata i piedi freddi innanzi alle bracie roventi. Ho messo il camicione di flanellina rosa per la notte, che è fredda, fredda. — Mi sono coricata nel mio lettino bleu-électrique. — Ho delle gaggie sul tavolino da notte, ed un brick d’acqua calda, zucchero, scorza di limone e cognac. Ho pianto. Mi sono rannicchiata tutta in sussulto. Dopo ho bevuto il cognac con l’acqua calda, zucchero e limone. Sorseggiavo seduta sul letto come quando ero convalescente del tifo. — Allora, per caso, scopersi che io ero un buon medium; ora mi sento serpeggiare un caldo alito sotto l’epidermide — poi tutte le gaggie le butto sul mio seno, le stropiccio, le sminuzzo, le polverizzo e mi profumano la carne…
Quando sarò morta mi vestiranno di fiori, poi sopra voglio un velo rosa, indi la seta rossa, poi un grande manto di velluto porpora. — Ah dove vidi un gran manto di velluto porpora? Quand’ero piccola; lo vidi.
Poi Rob, tu verrai a vedermi e mi spoglierai, ed io mi alzerò ancora viva, solo vestita di fiori e tu mi bacierai — non è vero che ancora mi bacierai, benché fredda, benché morta?!
Marina, vi sono dei pazzi tra i vostri antenati?… Ah Roberto! Ah Roberto!
Mi sembrava che egli fosse li, a guardarmi, poi mi ha voltato le spalle ed ha sorriso alla Miss inglese, bionda e milionaria! … Ho smaniato, sudato, imprecato, buttate le coperte. Le guancie infuocate, gli occhi scintillanti. Era febbre, la febbre. — Le mani chiuse… rattrappite, chiuse e strette… frementi… a disfida! Come, come lottare? Non voglio, non voglio, l’ho detto io non voglio. Piuttosto ti uccido — prima te e poi me, piuttosto che vederti d’un’altra donna!
«Ti ucciderò Rob!…» Questa decisione mi calma. — Cioè non è decisione — è cosí per calmarmi — per credere che ho qualche cosa da fare ancora!
Ah se tu avessi il coraggib d’essere povero! Amarmi e non desiderare il denaro! Vivere insieme anche in una soffittal… Sarebbe sempre un paradiso! Ma di queste idee egli non è capace. — Il lusso, l’oro, i palazzi, i cavalli, gli sono necessari come l’aria che respira. — Lo so, lo so… — Oh mamma, mamma perché non sei qui a sorreggermi il capo, ad inumidirmi le labbra aride, a cantarmi che «c’era una volta»?! Lassi, dove tu sei, vi amate? Ed il papà lo vedi? Vieni in sogno, vieni in sogno! De profundis damavi te domine… Dio, Dio esaudite la mia voce!… I miei genitori siano con voi, nella vostra gloria! Aprimi il cuore, o gran terra madre, accoglimi!… O maledetta inglese! Maledetti milioni! Maledette lyonesse… maled…
Che notte, che orribile notte! Sono smorta, gli occhi sofferenti, il muso aguzzo, come quello d’un povero gattino bianco, spelato, magro, randagio, che vidi una volta scaldarsi al sole, sui tetti. Diventerò brutta ed allora è finita.
Stamane doccia fredda, mi stropiccio, mi vesto, mi sento un po’ meglio. Si parte, io e Nina Sambise, pel suo gran paese… vedremo se riesco a distrarmi!
Il treno ci porta rasente la bellissima pineta del ravennate. Molti pini giacciono devastati da un ciclone — alcune donne raccolgono lo strato di aghi, ne fanno dei sacchi pieni e se li portano via. — Io guardo pensierosa, mentre Nina lotta col sonno. La sua bella testa nera dondola da destra a sinistra e viceversa. Non ha dormito in tutta la notte… anche lei! — Poi si scuote e dice:
– Se non parliamo mi addormento! Tu, che pensi, Marina? — Ad un moscone, che ho salvato stamane: mentre stava per annegarsi, mi dispiaceva, se moriva… Mi sento indolenzita, come il povero Camicia-azzurra. — È il mio primo viaggio in terza classe. — Poi si parla dell’inevitabile ufficio. La piaga, il morbo.
— Che credi? Press’a poco è cosí ovunque — l’ha detto la Morelli che ne ha visti altri; ovunque c’è camorra, ovunque c’è il marcio! Chi ha l’animo onesto ci soffre, ma che farci? Non si raddrizzano le gambe ai cani! Ma, dimmi, Nina, la Federazione non giova a nulla?
Che vuoi fare anche con quella!? Non c’è solidarietà. — Vi sono gli entusiasti, che si sbracciano, ma nessuno o pochi li seguirebbero: siamo dei vili. Vedi invece gli operai?! Ti piantano uno sciopero e chi la dura la vince! — Oh, ma quelli poi sono esagerati, scioperano per niente! Non è vero, non è vero. — Hanno ragione. — C’erano risaiuole che prendevano 60 centesimi al giorno, e lavorare nell’acqua! Ora le condizioni sono migliorate.., speriamo che migliorino anche per noi! Ma è più difficile! Nina difende gli scioperanti… io combatto le sue teorie… cosí, per ispirito d’opposizione! — Pausa. Mangiamo di gusto. Ecco una bella inondazione di viveri: ciambelle, marsala, prosciutto, gallina arrosto, frutta… Dopo si parla d’amore! — Oh come non parlare d’amore! Nina dice che il suo fidanzato è l’ideale — la perfezione fisica e morale: — Mi innamorò con questa frase: «La felicità consiste col darla agli altri», puoi trovare qualche cosa di più nobile e gentile di questo concetto?! — Non dico di no — ma ti prepari una bella vita! — L’ufficio, la casa, ti aumenti il lavoro, non lo capisci? — Quando si ama, che importa!? È bello ogni sacrifizio. D’altronde vedi le mie mani? Non sono affusolate e candide come le tue; sono avvezza al lavoro io! Laverò anche i piatti, dove avremo mangiato il nostro pranzetto, fatto da me — che felicità — non ti sembra?
I suoi occhi brillano di gioia evocando la futura felicità.
– A me sembra più comoda una buona rendita, però ti comprendo…
— Non ami, non ami, quindi non capisci!
Ho sussultato! Ella non sa… non sa che io amo e che…
– Bologna! Bologna! — ecco la turrita Bologna, Felsina, la nostra città — Marina, a momenti siamo arrivate. — Guarda… guarda… Lassi… vedi! quello è San Luca, quella è la Garisenda…
Ci avviamo in fretta alla stazione di San Vitale. La gaiezza di Nina mi si comunica, non ricordo i miei guai — decisa a passare qualche ora in una atmosfera più sana.
– Andiamo al paese delle ocarine [1] — dice Nina, con lieta malizia.
– Allora ad Ostrow, in Polonia, il paese delle oche per eccellenza!
– No, no, delle ocarine! Sai, è il paese delle ocarine! Non ti racconto una favola! Lo chiamano cosí perché un certo Donati [2] vi inventò un piccolo istrumento chiamato ocarina. Vi era pure un concerto di ocarinisti — fecero furore a Parigi, poi, invecchiati e dispersi, il concertino si sciolse. Una maestra mia amica voleva formarne uno di donne: donne ocariniste! Si rise, rise assai e non se ne fece nulla! In provincia non hanno spirito sufficiente!
— L’idea era graziosa!
— Eccoci a Castenaso, qui venivano i romani in villeggiatura, ed è il paese di mia nonna — ecco forse il perché ho il tipo romano! Nei poderi di nonna si trovarono monete antichissime, però la paura del diavolo consigliò i miei parenti di portarle alla chiesa — erano semplici i miei parenti!
— E la chiesa non ebbe paura del diavolo?
– Vedo il campanile, vedo il campanile! All’ombra del quale c’è la mia casa. — Ti presento il campanile budriese! — e Nina ride con comica gravità…
È diritto, rosso, semplice, un povero campanile, eppure, non so perché tanto mi commuove! — continua Nina. — Mi commuove, la sua cima, tra quegli alberi — vedi io piango, oh Signore! proprio piango!
Il treno rallenta rallenta…
— O mamma, mamma mia! — grida Nina, dal finestrino, — eccoci qua, eccoci qua — prendi la valigetta! Come va, come va…? — È un momento d’effusione. Poi vi sono i parenti, tutta gente geniale — piena di cordialità. Eccoci in un palazzetto di fronte alla stazione, tra il verde dei pioppi americani. Si pranza allegramente in una saletta comoda a pianterreno. Si sturano parecchie bottiglie! Fra quella buona gente, il mondo mi pare ben diverso — anche l’amore dev’essere calmo in questi luoghi. Cosí pensava mentre ascoltava l’allegro chiacchierio.
E Nina mi dice sottovoce:
— Vedi quanto sono gentili i miei parenti!? Ma non chiedere un soldo, ché non ti conoscono piú!
Poi abbiamo visitato il palazzo comunale di stile medievale. Nina fa da cicerone:
È opera dell’ingegner Menarini [3] anima d’artista e cuore di patriotta — del resto siamo tutti patriotti qui. Vedi, nel movimento della gloriosa epopea nazionale, anche il mio paesello fu pronto a combattere: leggi quell’epigrafe… [4] Leggo:
MDCCCLXIX
PERCHÉ L’AMORE DELLA PATRIA
CRESCA DALLE DOMESTICHE MEMORIE DEL TEMPO
IL COMUNE DI BUDRIO
VOLLE INSCRITTI QUI I NOMI
DEI CITTADINI
CHE PER LA LIBERTÀ D’ITALIA
DETTERO LA VITA
GLORIA DELLE GENERAZIONI PRESENTI
ESEMPIO DELLE FUTURELORENZO SGARZI D’ANNI 42 MORTO A ROMA DEL 1849
LODOVICO BONORA » 22 » » CUSTOZA » 1866
ALBINO BONDI » 20 » » MENTANA » 1867
CLEMENTE BONDI » I8 » » MENTANA » 1867
FRANCO ZAMBONELLI D’ANNI 25 MORTO DI FERITE RICEVUTE A MENTANA PER VOTO DEL CONSIGLIO COMUNALE, ECC., ECC.
Nina piangeva: era commossa anch’io, poi ha soggiunto:
— Ho un fratello di papà [5], reduce dalle patrie battaglie — quando mette la camicia rossa, non puoi credere come batta il mio cuore — e se occorresse ancora, so che qui saremmo subito tutti «camicia rossa». Il nostro stemma è un leone e tre stelle in campo rosso, col motto: Fortis ut leo [6]. Ed è così! Povero caro paese — ne ha sostenute di lotte, di angherie, di oppressioni! Hanno avuto alle costole, in altri tempi, il famoso Valentino Borgia ed anche il Barbarossa! Poveri budriesi, allora non stavano sulle rose sicuro! Abbiamo avuto uomini illustri… Filopanti [7], avrai sentito parlarne, dal nulla seppe elevarsi col solo patrimonio dell’ingegno… ed altri.., e molta gente colta e laboriosa. Adesso le personalità pii spiccate sono la signora Menarini [8] coll’industria dell’Emilia ars — i bei lavori che vedrai — l’avvocato Cocchi [9] col traffico dei bozzoli e filati.
È figlio d’un famoso patriota, il colonnello Cocchi [10] — Il pittore Majani in arte «Nasíca» [11]. — Tante ottime persone modeste e laboriose e altre simpatiche come il maestro Nanni [12] e le mie antiche maestre — le ricordo con amore, specialmente la signora Pesci [13] e la signora Roversi-Sarti [14].
— Sopra tutti metti, come genialità, il cavalier Codicè [15] — Ah quello è un gentiluomo d’antico stampo.
— Gaudente, lavoratore, istruito, senza pedanterie.
— Se tu sentissi le sue rime! È sempre lui che scrive! — Guarisce un malato, si fa un matrimonio, c’è la serata di qualche artista, c’è un banchetto? Ecco che fioccano le sue poesie sempre adatte, sempre belle… che egli compone colla massima facilità.
— A me ha regalato il ritratto con questa dedica:
Il fotografo si sbraccia
a dir: Tutta la sua faccia!
Se per lei questo non è…
Le dirò: a son Codicè!
— E tu che ami le ciliegie senti la ballata, sempre del cavalier Codicè — la ballata delle ciliegie bianche — che Egli dona alla Zaira:
Fresche ciliegie dal colore bianco
da la polpa succosa e saporita,
che tra le foglie riposate il fianco
dov’è l’arbusto che vi diè la vita?
Dov’è il color sanguigno, o quel di rosa, che al sol di giugno prendon le sorelle? Perché una tinta bianca e vaporosa vi copre come il vel le monachelle?
— Senti come è grazioso — poi chiede alle ciliegie, la loro storia e quelle rispondono:
La storia è breve, eppure avventurosa: Una giovane pianta di giardino fra bianchi gigli e fra roseti ascosa vermiglie ci creò più del carmino…
e ci colse tremando su l’aurora di un amico signor la gentil mano
E qui il signore parla alle ciliegie, ascolta Marina:
Andatene cortesi a la Zaira che vi aspetta con ansia e di voi sa e nel pensare a voi forse sospira… forse a quest’ora a letto Ella sarà!…
Voi troverete in lei forme divine… bocca soave ed occhi lampeggianti, voluttuoso ed abbondante il crine carni di sana gioventù odoranti…
a la sua bocca v’abbandono… andate…
Ora le ciliegie si commuovono, attenta, Marina! le ciliegie rispondono:
…Un brivido ci corse per la pelle,
che scolorossi tosto e inebriate
di voluttà frementi… oltre le stelle
salimmo in ciel ne la suprema attesa
di tanta gioia e della terra stanche
sognando la dolcissima sorpresa…
siamo di rosse diventate bianche!
— Ah ah, bene, benissimo! Senti, Nina, scommetto che viceversa, la Zaira da bianca è diventata rossa! Graziosa questa ballata. — Se me la darai completa, la voglio musicare…
— Te ne farò avere delle altre.
— Mi piacerebbe conoscere questo poeta, che si nasconde umile in questo paesello!
Abbiamo girato il viale dei pioppi sovrastante il canale, ho veduto i torrioni di difesa, il teatro, le sale del Club, compiacendomi ovunque e con ragione.
Innanzi a questa gente buona, ignara di tutte le falsità della nostra società, dell’élite (per ironia!), le idee malvagie se ne vanno, in fondo al canale dei pioppi. Come mi sentirei buona anch’io vivendo qui, senza smanie, senza vampe!
— Peccato che in campagna vi siano sempre dei disoccupati. Siamo poveri, ma miglioreremo; col tempo forse non vi saranno piú tanti emigranti — guarda, Marina, son nata IL.. in quella casa… mi dice Nina con molta tristezza.
Ho subito ricordato la mia situazione, la mia casa, la mia bella villetta perduta… ma non mi hanno dato tempo di rattristarmi. Tutti cordialmente intorno a noi a complimentarci con affettuosità…
— Vedi che buona gente! — ripete Nina con tenerezza piena di affetto per i suoi compaesani. E più tardi, mentre mi corico in una camera bianca bianca, nel letto bianco bianco, sento ancora la voce gioiosa di Nina da un’altra camera dirmi forte:
— Buona notte Marina, ricordati che sei nelle molli piùme delle ocarine di Budrio.
— Cara! Buona notte.., anche alle ocarine! E s’incrociano i buona notte, i buon riposo… Tutto è tranquillo, non si sente che l’ultimo fischio della vaporiera alle ore 20,45 — poi qualcuno che russa in una camera attigua…
Ecco davvero una bella giornata! È caduta tanta neve. — Si vedono i fili del telegrafo incurvarsi sotto quel peso. — Quasi nullo è il lavoro perché non si può corrispondere. Tutti sono in movimento: direttori, capoturni, assistenti, ispettori e tirapiedi. Tutti irritati — affaccendati, come a studiare un piano di battaglia. I telegrammi s’ammucchiano sui leggii. Siamo arenati come le navi nei ghiacciai! «Filo isolato, filo a contatto, filo a terra», non si sente che ripetere quest’esclamazione.
Intanto ciascuna sgaiattola nello spogliatoio. Colà chi s’incipria, chi beve l’ovo, chi fuma la sigaretta, chi mangia il gianduia, chi si pettina, chi pulisce le scarpe, chi legge una lettera… Grande ingombro di soprabiti, impermeabili, galoche, ombrelli. — Tutto ciò urta i miei poveri nervi già in tensione. Tutto quell’umidiccio e quell’orgasmo, mi rende agitata, scontenta, impaziente. — Le finestre chiuse, il puzzo della stufa, l’aria calda e rarefatta — ho la testa greve come un macigno! Non si lavora per forza maggiore, eppure sembra che noi siamo la causa, tanta è l’asprezza con cui ci trattano in quei momenti! — Marina, vedi? la Mariani ha preso quindici giorni di sospensione per la baruffa coll’Ebe. — Ed alla Guglielmi non danno straordinario da otto giorni! Povera Mariani! Ma perché alla Guglielmi? !
— Perché è in rotta con la favorita del gallo!
— Oh ma il direttore non c’è — che c’entra.., il gallo?! — Già, c’è il Direttore! C’è il Re travicello! Lo sai pure! Chi è che fa, è lui: il Gallo della Checca! quindi guai a toccargli il «Vago fiore! », se ne vendica!
Ma non credo; egli mi pare tanto di buona pasta! piùttosto sarà per altre ragioni. Io lo trovo sempre gentilissimo, compito, non ebbi mai a lagnarmi… Non so poi se realmente accadano rappresaglie… Io tento pacificare gli animi… — Che faccie toste hanno quelli là! E tutte le fortune! Tutte le fortune, mondo infame! — borbotta Follini. Passano un dopo l’altro.., i colpevoli… — Sorridenti, la testa alta, trionfanti! «Lei», si dondola soddisfatta, simpaticissima… un magnifico frutto maturo… appetitoso! «Lui», canticchia, occhieggiando qua e là.., perché è tenero anche per altre gallinelle…
— Che hai Nina, che hai Nina?! Sei convulsa? — Altro che Austria, altro che Austria!! Mi tormentano. È inutile! — Non posso né tacere, né muovermi! Lavoro per quattro e non faccio niente! Perché ho dovuto ritirarmi un momento, ché mi sentivo male! E tu, Fiorilli? Che t’hanno fatto? Sei anche tu fuori dai gangheri? — Maledetti, maledetti, accidenti a tutti i direttori! E danno la colpa al Ministero — già il Ministero! Se sapesse ciò che succede realmente, farebbe la festa a loro! ma non dico niente, lasciatemi stare! Oh! — Il Ministero non sa niente! O se sa, sa quello che gli vogliono far sapere e nulla più! Non c’è scampo, non c’è scampo! Siamo chiusi entro un circolo ben saldato! Purtroppo! — grida Fiorilli piangente e scalmanata, mentre scappa quasi di corsa verso l’uscita… … Due lire per un mazzetto di viole, un bel mazzetto che mi ha portato la donna, la nostra commessa. — Saranno tutto il mio lusso di stassera, alla festicciuola del ritorno! — Anche per oggi, ufficio addio! addio miserie. Quanta amarezza ho in corpo! La mia lingua è asciutta, arida! — Vedo Nina che mette del cartone entro le scarpe. Ella mi dice, sorridendo, alzando su me i grandi occhi:
Son rotte, sono rotte e mi bagnerò i piedi, con questa neve! Non ne ho altre. Dunque speriamo di buscare soltanto un raffreddore! Sai, Marina ne ho prese di bronchiti, in questo modo! Pare impossibile, mi riduco sempre colle scarpe rotte!
Ella mi parla senza rimpianti, anzi con dolcezza, poi soggiunge a mezza voce:
— Stassera scriverò a «Lui» gli mando un regalo! Un mandolino (ecco perché stavolta non ho potuto farmi le scarpe). Domani è il suo onomastico. Riceverà il mio piccolo dono; come sarà contento! — Addio Marina — divertiti con le tue contesse! — Io sarò felice colla mia vecchierella e la nostra polenta col merluzzo. — A rivederci, divertiti! — Scendiamo insieme. Ella serena e gaia: io torbida ed assorta. — Il vento ci manda folate di neve e ci scompone i capelli. Si scivola ovunque: i passanti sono radi ed incappucciati. Non si conosce più nessuno! I caffè, i bar, sono pieni di gente. Io vado dal guantaio, vi spenderò dieci lire e Nina ha le scarpe rotte! Spendo lo stipendio di qualche giorno! E vi sono poveri che non avranno neppure un po’ di fuoco, e Nina mangia la polenta, chissà quanti mangeranno solo polenta! Ma ecco a quietare il mio sottile rimorso, un ricco equipaggio mi taglia la via. Ho conosciuto la livrea della contessa Garlendi. Si fermano innanzi al gioielliere. Al salone Margherita entrano due… sovraccariche di pelliccie, brillanti e profumi! Dal profumiere vedo la signora De Ferronis. E ogni tanto, qua e là, dove si spende danaro inutilmente vedo qualche mia conoscenza… Io continuo a filosofare, scontenta di me e di tutti e vado. Voltavo per via M… quando qualche cosa mi ha attirata a guardare nel negozio della fioraia. Ho alzato gli occhi… oh Dio mio! Roberto! Roberto era là… intento a scegliere fiori bianchi, tutti bianchi, un monte di fiori bianchi! E fuori una carrozza da nolo, lo attendeva! Non mi ha veduta, ed io frettolosamente mi sono rifugiata in una porta di rimpetto dove potevo vedere e rimanere nascosta.
Pareva più bello, nella sua divisa! Alto, aristocratico, fra tutti quei fiori! Mi ha dato una vertigine! — Col manicotto contro la faccia soffocavo il mio impeto perché avevo dei singhiozzi! Per chi, per chi, erano quei fiori? Capisco, ancora per le donne che si pagano! Per le quali si consuma un patrimonio, per le quali si rovina una famiglia, si turbano intere esistenze! E poi, cosí… come Roberto, costretti a vendere il nome per tirarsi a galla! Amore dolore e rabbia e rivolta mi hanno afferrato il cervello come quattro mani vigorose e nerborute pronte a sfracellarlo! Sentivo in quel momento maciullarsi in me ogni senso di lealtà ed onestà. Provavo un fermento di idee.. sinistre! Tanti serpenti entravano nel mio cervello. Ho veduto uscire dall’Eden, una canzonettista. Vestita con quel lusso speciale che attira come il genio del male! Anch’ella era piena di fiori nella sua carrozza. Ecco le mie rivali! Tutte mie rivali! E stassera avrò rivali sotto i miei occhi, le vere signore: Col fascino della distinzione di razza, e dei brillanti e dei biglietti da mille! Ed io, io!? Un’impiegatuccia! Madonna! l’amore di Roberto rimarrà umiliato per la mia modesta figura! E le altre hanno il lusso che abbaglia, l’arte che attira, l’infernale abilità di… solleticare, frugare le foie del bruto, l’arte prava d’ogni sozzurra, insomma! Ciò che piace all’uomo!
Cosí eccitata entro al caffè di S. P. ed ordino un punch, poi un altro punch, poi un caffè bollente, poi un cognac.
— L’ira ed il dolore mi fanno tremare le labbra, un demone entra nel mio cranio, e s’affonda, assorbe ogni senso di dovere! Ed ecco una voce alle mie spalle; voce che mi fa trasalire e che mormora:
– Che avete!? Bellissima, ascoltatemi! Senti, cara, vieni con me! Un’ora! Ti ripeto: come una modella! E tutto ciò che vuoi è tuo… è tuo. Vedo che soffri, accetta, vieni, risolviti, dimmi come posso giovarti…!
Quella è la voce ardente del Banchiere; penetrato li, alla sordina. — Egli incalza. Io lo fisso con occhio insolito: freddo eppur rovente! Cui sfugge la ragione! Sono sospesa come la foglia sopra l’abisso — ancora un attimo, un soffio — e cala in fondo.
– Vuoi gioielli, denaro? ordina! Ciò che vuoi ti dico! Ed a me null’altro che vederti. t tanto poco! Che ci perdi? nulla! Dunque…
Egli parlava, ma io non lo ascoltavo. — Sperduta in un baratro, già in fondo nel precipizio, mentre all’orecchio insisteva la frase: «Tutto ciò che vuoi!… Non perdi nulla…! » — Il punch, il cognac, il caffè — la mia testa è diventata di fuoco! Mi aio con la graziosa mossa dell’agile pantera. Mi allungo, scuoto le spalle.., sorrido e dico sottovoce: andiamo dunque! Voce e sorriso sono da ebete!
Corre la vettura! Dal gioielliere prendo due perle orientali per le mie orecchia, ed un piccolo diadema identico. Corre la vettura! — Da B… un abito di tulle glauco, un dessous di seta verde mare, calze, trine… Una sortie-de-bal, di panno bianco ed argento, ricamata in argento, foderata di raso candido come cigno. — Corre la vettura! Dei fiori, tanti fiori, cento lire di fiori, anch’io dalla fioraia! — Si corre, si corre! Entriamo in un magnifico palazzo. Grande scintillio di lampadari, ricchi arazzi, specchi, quadri, tappeti… vedo di sfuggita, traversiamo tante sale sontuose, poi una porta s’apre d’incanto! Ah! getto un grido di meraviglia! Ciò che vedo sorpassa la mia fervida immaginazione! È là una grotta fatta di rose! Rose morbide di seta e peluche. Tutto, tutto è rosa. Sgabelli, divani bassissimi, son tutte rose che formano mobiglio. Una luce altrettanto rosea piove dall’alto. Brillano stalattiti e stalagmiti di cristallo. È una cosa splendida! Mi affascina, non ricordo piú altro. Rimango inebriata, rapita in quella visione di bellezza. Ah, io sarò l’usignuolo tra queste rose! E trillo spensierata il mio trillo piú argentino. Mi prende il delirio dei baci, e bacio tutte quelle morbide rose. Esaltata, ridente e folleggiante. Tutti i capelli mi inondano, sprizzando oro…
Ah, ah! ecco… no! voglio fuggire! Sono inorridita, smarrita, ansante. Egli, egli! Mi strappa le vesti — no, no! non voglio — aprite quella porta — aprite quella porta! Sono pazza!? Aprite!
Urto, graffio, strepito… ma nessuno mi sente!…
Poi rallento le braccia — gli occhi sbarrati e pieni di lagrime. Mi rammento, mi rammento il mercato! — Ah bisogna cedere e do in una risata da pazza — lasciando fare, lasciando profanare la mia nudità, scrollando il capo perché i capelli mi coprano il viso rosso di vergogna e mi velino all’occhio del profanatore! La modella? Sono la modella, che l’artista sminuzza, guarda in ogni sinuosità e fissa sulla tela? No — peggio! Sono la modella che un uomo ricco e lussurioso vuole fissare nel suo impuro pensiero. Ah l’agonia è durata qualche minuto, che mi è sembrato un’eternità!
Poi sulla via, camminando come una cieca, come un’ubbriaca, andavo rasentando i muri, sollevandomi all’aria gelida che sferzava il mio viso. Scivolavo nei portici melmosi pieni di neve e di fanghiglia caduta dalle scarpe dei passanti. Non nevicava più. I tramvai cominciavano a circolare col loro tintinnio dei campanelli ed il rombo sordo… le vetture con rumore strano… Tutto mi pareva atmosfera di sogno! di cattivo sogno — di incubo!
Totillo mi guarda con aria triste. Da qualche giorno non più baci, non più carezzine al povero Mignon! Ho altro per la testa! Speriamo tempi migliori. Ora ho bisogno di energia e mente serena. Un bagno freddissimo ed il sangue mi scorrerà meglio. Siamo in tempo di guerra — occorre che mi rassegni! Cosí ragionando cerco mitigare la mia vergogna e poi… cosa fatta non si disfa! — Mi conviene dimenticare e non fare più pazzie! …
Il mio grazioso pied-à-terre pare una serra fiorita. Sul cippo di madrepora, sull’étagère — nell’Ebe negra — sullo scrittoio — fra i giapponesi…
Nelle anforette, nei calici, sul mio lavabo.., ovunque fiori e fiori e fiori!
L’acuto profumo mi stordisce mentre attendo alla mia toilette. Bisogna che io sia più che bellissima, più che affascinante, bisogna che la mia persona desti una impressione come qualche cosa di più della solita bella signorina della buona società. Anzitutto una pettinatura che nessuna avrà — eppure tanto semplice; la vidi in un vecchio quadro inglese. — Riga nel mezzo — divisa da un orecchio all’altro — traversale. — Da ambo le parti un nodo di velluto stretto; quindi un mazzo d’enormi riccioli: le spirali d’oro lunghe sino alle ginocchia. Di dietro due grosse treccie, con le estremità arricciolate, puntate in alto, col diadema di perle. È una cosa magnifica, superba, con dei capelli come i miei. E si vede che tutto è autentico! Questa pettinatura conferisce una espressione infantile ed anche regale. Sembra la testa d’una regina adolescente! Gli occhi, lavati con fior di robinia e limone sono limpidissimi, piú di ciel sereno, piú di zaffiro! Le labbra di sangue, si schiudono bene, in un sorriso bello ed ecco i denti bianchi, nitidi, ben allineati… M’avvolgo in candidi merletti, poi la sottoveste di seta verde mare e l’abito di tulle glauco, al quale io so dare una piega speciale, una linea artistica… E come una pennellata gentile ecco le mie violette si staccano deliziose sul verdemare e l’oro della mia testa. Bianco di carne, oro di testa, verde mare e violetto e perle e perle… Collo, braccia scoperti. Lunghi guanti e scarpine viola, così mi piace, non scarpe bianche, non guanti bianchi. — Rompo la tradizione e seguo il mio gusto, che vale meglio. Sono pronta! S’avvicina l’ora della commedia! Il mio cuore trema… Addio Totillo, vado, vado! La mia sortie di panno bianco e argento, il mio ventaglio di tartaruga bionda e veli dipinti, la mia borsetta d’argento con la ghiandina di cristallo — vado.., risoluta a lottare! Sono sfolgorante di giovinezza e di speranza… senza sapere a che mi aggrappo!! Vado alla festicciuola del ritorno…
Incontro gli equipaggi vuoti che ritornano — io sono ritardataria… tanto meglio!
— La mia arpa è al posto, caro Giovanni? — chiedo al cerimoniere.
— Secondo i suoi ordini, signorina — nel gabinetto rosso, tra le palme.
M’inchino e corro per scale segrete. Sosto un momento in biblioteca, per riordinare i moti scomposti del mio cuore e del mio cervello. Se non trovo la calma, sono perduta. — Poi fra le tappezzerie osservo nel grande, immenso salone, tutto pieno di dame, di cavalieri. Un luccichio di seta, tulli palietté, brillanti gioielli. Molto bianco, celeste, rosa, grigio e nero, il solito! Ecco Roberto! Ecco Roberto, con una scialba signorina, senza gusto e stecchita — meno male! Ciò mi rinfranca!
L’orchestra tace… mi risolvo e suono io…
Ho suonato! che cosa ho detto con la mia arpa?! Tutti gli amori, le ebbrezze, le collere folli, i desideri violenti, la disperazione, la tenerezza, la vita, la morte! Era un’anima inesauribile che vibrava in quei suoni! Un’anima che si sprigionava, staccava, viveva a sé, disgregata dalla materia! Sublime s’innalzava tra voli d’angeli, o si dibatteva coi demoni! Così Paganini avrà sentito per dare le sue melodie che rapivano e suscitavano delirio. — Io non sono Pa-ganini!… Però mi hanno portata in trionfo — strappata dal mio rifugio, tutta vibrante, con gli occhi pieni di lagrime… Non saprò mai dire l’entusiasmo, il successo di quell’ora. Solo Roberto mancava, non lo vedevo piú!… Poi viene, spinto dalle convenienze, pallido, viene a congratularsi! La piú esultante è la Contessa. Ella, insolitamente espansiva, mi accarezza, bacia e mormora allegramente:
— C’è la fidanzata di Roberto. Tu, che l’ami come un fratello, rallegrati con lui. Stassera è l’annuncio ufficiale… ora ti presento a Miss Dolly De Liverstone — una cara e gentile Miss. Ti piacerà, sono certa!…
Chi si sveglia di notte alle prese con un assassino, deve aver provato ciò che ho sentito io! Ah non ho indovinato!
I fiori erano per lei! La festa piú solenne, l’arrivo di Roberto… ah sono un’imbecille! Omberecais. Continuano a fioccarmi elogi. Il più sperticato è quello del mio vecchio pretendente. Egli mi afferra la mano e dice tutto in un fiato:
— Mostratevi in teatro e vi farete milionaria! Il vostro è genio, capite? il genio!
Io sorrido! — oh il genio! il genio, no? Occorre altro!
Ecco Miss Dolly… Stringo il mio piccolo pugno con violenza e continuo a sorridere. Lei! Lei!, la bionda stecchita, insignificante! … dovevo prevederlo! C’inchiniamo, poi mi sequestra. Parla bene in italiano. Mi fa dei complimenti, m’invita a Londra, poi a Venezia dopo il matrimonio… Parla, parla! Io sorrido, devo ringraziare. Ah maledetta! Tu e i tuoi milioni, maledetta, maledetta! Le prenderei il collo lungo e sottile e glielo tirerei come… Vorrei schiaffeggiarla, piantarle degli spilli nella carne, sentirla gridar pietà — ed io no, ed io crudele piú crudele continuarle il supplizio! Mi sento iena che sbrana, spezza, frantuma e si satolla di carne calda e sanguinolenta! Ella è forse un po’ gelosa di me — ma non lo dimostra, non per nulla siamo della buona società. Roberto ci guarda inquieto… ci osserva. Egli è a disagio, lo vedo bene! Ritorna a noi la Contessa, raggiante, ringiovanita:
— Ed ora Marina, eccoti il fratello di Miss De Liverstone, che brama di esserti presentato. E pianino: divertilo! Mi farai piacere!
Ah devo anche divertirle il fratello! Ciò è troppo, egregia signora! Ma Sir Henry De Liverstone disarma la mia collera. — I suoi occhi sono dolci d’un bleu denso. Quegli occhi mi quietano, improvvisamente come riposassi lo sguardo sopra un amico dalla barba bianca. Egli è un bel biondone. Carne rosea, capelli biondo carico. Alto, complesso, mi produce un’eccellente impressione. La sua voce è vellutata come ha la nostra quaglietta d’ufficio. Subito impallidiscono le mie atroci sofferenze. Ci allontaniamo, entrambi contenti. Il suo braccio mi pare la mia difesa.
È strano! Ed egli è il fratello di colei che inconsciamente mi martirizza! Sir Henry mi ha conquistata subito. Egli mi piace: parla italiano come sua sorella, io gli rispondo in un discreto inglese.
Sir Henry è il mio raggio di sole, la mia stellina del cielo, il fiore di mandorlo e melo… Allieta il mio povero spirito accasciato. Mi solleva, mi sfebbra il sangue. Il nostro conversare è gaio e biricchino:
– Sapete che ho nel mio portafoglio, Miss Marina?
— Enigma facile e difficile ad un tempo, Sir Henry.
– Ho due violette, due delle vostre violette, trovate accanto alla vostra arpa che io… ho baciato! Permettete che le conservi?
La sua voce ha un tremito sottile, un suono carezzevole.
Ed io, con malizia e piacere:
— Se vi piace, conservatele. Ne ho tante, come vedete! Egli mi ricambia il sorriso tenero e malizioso.
— Facciamo questo valzer, Miss Marina?
Mi appoggio dolcemente, egli mi stringe e voliamo tra le altre coppie.
Inondata da un benessere che mi ristora, dona forza e coraggio. Sento il tepore del suo corpo fresco e forte, mi stringo a lui, mi appoggio di più. Cosí per istinto.., attirata; poi ci guardiamo e sorridiamo… gli occhi negli occhi… È un attimo! Un fruscio soave muove il mio cuore! Le mie labbra si schiudono come il calice d’un fiore che aspetta la gocciola ristoratrice! Poi sono invasa da una gaiezza indiavolata. Mi ritorna la vena di monello! Divento.., la delizia di tutti! Roberto è livido, furente… fuori di sé! Brutto, o brutto, come sono felice di farti dispetto! E Sir Henry si diverte, signora Contessa!!
— Voglio essere il vostro cavaliere a tavola. Ricordatevi Miss Marina, bisogna, lo voglio, proprio lo voglio… perdonatemi… — dice Henry con calore…
Dolly è al braccio del Visconte Garlendi. — Roberto si avvicina a me, e mi dice in tono che non ammette replica:
— Vieni in biblioteca, subito! va… per le scale segrete…
Ah! Come mi ha afferrata pel capo! Con quale folle passione, con quali parole d’esaltazione e d’amore! Quei baci bruciavano la pelle!
— Finiscila con Henry, o non posso più frenarmi! — mi ha detto impetuosamente.
— Oh! ed io? Consolati con la fidanzata, che dovrei dirti io?
E mi divincolo, lo respingo, sarcastica, fredda.., repentinamente cambiata…
— Tutti i fiori bianchi erano per lei, Roberto?
— Ah! lo sai? Sí, erano — ma… con questo…
— Con questo lasciami. Stassera, mi nausei!
— Per Dio, ti strozzo se lo ripeti!
— Anche meno, diamine!
Egli si è subito calmato innanzi al mio contegno freddo
e di sfida.
— Vattene a casa, ti raggiungo, bisogna che ti abbia stas sera! Ti abbia…
– Sei pazzo? Né stassera, né piú mai! Ora è finita! Ricordalo…
Si è fatto timido, umile, implorante come un fanciullo! — Il desiderio prendeva anche me, mi faceva pietà. L’ho baciato anch’io con trasporto…
— Vengo Marina? — ha ripetuto ritrovando la speranza. — No, mai! Che parte vuoi farmi rappresentare?!
— Ma occorre che ti parli, almeno parlarti, ho molte cose da dirti…
— Ebbene ti do un appuntamento; domani alle 15 al Crocevia dei Rossi vi sarò puntualmente.
– Mi deridi? Un appuntamento tra la neve, e perché al Crocevia?…
Ed io con ostinazione:
– Se vuoi è cosí, o nulla! Scegli…
– Sei tremenda, bisogna ben ubbidirti — ah mio piccolo demonio! Ti adoro!
Bastonato, Roberto è bastonato, quasi mi fa pena, povero Roberto!…
A tavola riannodo il flirt con Henry De Liverstone. Fioccano i brindisi… andiamo — sarò eroica… mi alzo e… anch’io brindo con bei versi improvvisati… brindo alla felicità degli sposi! Tutti i calici si alzano.., solo quello di Roberto cade e si frantuma!
Sir Henry commosso, mi chiede:
— Scusatemi, e voi siete fidanzata, Miss Marina?
Esito un istante prima di rispondere:
— Sono povera, Sir Henry e niente fidanzato! Ed egli, con gioia:
– Me lo assicurate proprio?
– E perché no? ve l’ho detto, quindi!
Egli è esultante, mi parla di tante cose:
— Faremo Christmas a Londra, venite? — Ah se veniste voi!! Avete veduto mai il Natale a Londra, Miss Marina?
— L’ho veduto, Sir Henry.
– Quando riascolterò la vostra arpa, Miss? — Forse mai più …
– Oh no, no, non lo dite, io voglio sentirvi ancora!
Alle 3 si riprendono le danze. Si vuole che io canti! — non canto, signore e signori, io so… soltanto… Scusatemi… so fischiare… me stessa! Eccitata dai vini generosi ho avuto quell’ardimento! Hanno voluto udirmi. — Allora è accaduto ciò che nessun teatro potrà dare mai! Uno spettacolo nuovo! Il mio trillo d’usignuolo! Nel quale è la soavità del flauto, dell’oboe… Ho trillato, trillato — squillando note acutissime, tenui, mille sfumature dolcissime… tremolii deliziosi. Erano i merli, le capinere, gli usi-gnuoli insieme uniti a cui la natura aveva centuplicata la potenza canora! Non mai altro salone avrà un simile concerto! Tutti gli uccelli della foresta, all’aurora, che inneggiano al sole, all’amore, alla vita! Tutto ciò è uscito dalle mie labbra socchiuse come un bocciuolo di rosa porpurea! Ho ottenuto un successo nuovamente delirante! Poi mi sono eclissata. Fuggiva perché bisognosa d’essere a casa mia sola — per non vedere e per non sentire più nessuno!