Liberazione di Budrio, 20 aprile 1945. Quella mattina, Elena Davalli nel suo diario racconta dell’arrivo degli alleati inglesi. A quei tempi Elena (nella foto insieme al fratello Renzo) era una studentessa universitaria di ventitré anni, iscritta alla facoltà di lettere moderne di Bologna, che ovviamente si vede costretta ad interrompere gli studi durante la guerra.
Il suo racconto della Liberazione di Budrio ha inizio dal 15 aprile, da quando cioè entra nel rifugio “Il Colosseum”, dal nome del condominio sopra il caffè di Graldi (Caffè di Piazza Filopanti) in cui abitavano la sua insieme ad altre sette famiglie. Il rifugio era stato ricavato dietro il caffè e ospitava altre sette famiglie (in tutto 57 persone) che abitavano in case vicine sinistrate dai bombardamenti. In quei giorni il fronte si era avvicinato e tutta la popolazione budriese si era arrangiata alla meno peggio per adattare dei locali a rifugio (nove in tutto quelli documentati a Budrio). Si trattava di trascorrere le ultime giornate di bombardamenti che però sembrarono lunghissime e tremende.
Il figlio Andrea Gentili, pur non avendolo mai letto, conosceva l’esistenza del diario della madre sulla Liberazione di Budrio e dopo 70 anni, sollecitato dalla giovane figlia Adele, intenta nello svolgimento di una ricerca scolastica sulla Liberazione, lo recupera. L’emozione, nel leggerlo per la prima volta insieme alla figlia, è talmente forte da indurlo a pubblicarlo.
Tratto dal libro “E suonarono le campane… Budrio, 20 aprile 1945, ore 10.10″, Diario da un rifugio nei giorni precedenti la Liberazione” di Elena Davalli
A cura di Andrea e Adele Gentili – Edizioni Stilelibero
20 aprile 1945
«Il nostro dormiveglia sul far del giorno è rotto da una violenta sparatoria di mitraglie molto vicino: immediatamente molte granate scoppiano attorno al nostro palazzo. Un grande panico fra noi donne; gli uomini cercano di incoraggiarci, ma la situazione sembra peggiorata. Io continuo a scrivere il mio diario, ma i miei nervi subiscono scosse fortissime. Intanto un cupo rumore, a noi già tristemente noto, e che ci fa rabbrividire si sta avvicinando; di lì a un attimo scosse violentissime, spostamenti d’aria. Sembra un terremoto. Un bombardamento così forte non l’avevamo ancora provato. Saranno molto vicino. Speriamo che Iddio ci aiuti. La paura è molta. La Liliana piange, la mamma si tura le orecchie e chiude gli occhi; gli uomini parlano tra loro, cercando di darsi un contegno coraggioso. Ma anch’essi mi sembrano molto spaventati. C’è molta elettricità in giro. Già da 5 giorni siamo in questa tana. Riusciremo a saltar fuori illesi? Ogni giorno stiamo sempre peggio. Ma come resistere ancora? Perché fare stentare così tante povere persone? Anch’io che ero abbastanza calma, nei giorni addietro, stamattina sono innervosita e agitata molto. Se avessi tra i piedi un tedesco non so cosa gli farei; ed anche un alleato, che ci fanno così morire adagio, col contagocce, impiegando tanti giorni a muoversi dall’Olmo! Ad un tratto udiamo dei colpi violenti alla porta, con urli: “Aprite, aprite” Il nostro cuore batte forte: saranno ancora i tedeschi; ma che cosa ancora vorranno? Nessuno osa aprire. I colpi si ripetono ancora più forti. Allora il babbo e Puglioli si fanno coraggio, alzano la spranga che puntella il portone e…contemporaneamente udiamo delle grida: “Ci sono gli inglesi!! Nessuno ci crede; io mi faccio sulla porta; vedo due soldati con la “scodellina” in testa, accompagnati da Giovannino e mi precipito in rifugio, non so se piangendo o ridendo, e urlando*. Ci chiedono la chiave della torre dell’orologio. Vi salgono a suonare le campane: sono le 10 e 10 minuti. Tutti si fanno sulle porte dei rifugi e sulle strade; corrono, cadono, si rialzano; ci si abbraccia a vicenda anche non conoscendoci, con le lacrime agli occhi, tutti sporchi, spettinati; gli uomini sembrano degli evasi di prigione, con barbacce lunghe e ispide. Sono attimi di gioia, di felicità, di commozione; sensazioni, attimi, che occorre averli trascorsi, per poterli non descrivere, che non è possibile, ma sentirli nell’animo. Il nostro paese è in rovina; case scoperchiate, pareti bruciate, strade con enormi buche e un mucchio di pietriccio; tutti i fili della luce elettrica giacciono in terra; ovunque schegge, grandi e piccole, legni bruciati e molta polvere. Passano carri armati, camion, camionette, jeeps. Alleati e italiani, tutti applaudiamo e urliamo di felicità. Nel cielo di un azzurro limpido passano aeroplani. I soldati ci offrono sigarette e noi vino. Tutti gli uomini cercano di riassestare le strade, onde agevolare il passaggio. Si dice che i tedeschi si siano assestati sul fiume Idice. Infatti si vede molto fumo e si odono mitragliatrici. Ancora non siamo sicuri e ci fanno rientrare in rifugio, perché l’artiglieria tedesca sta ancora sparando su di noi. Infatti udiamo già dei colpi violenti. Ma la nostra contentezza è tale che non ci sembra di dover avere più paura; invece purtroppo quei cani di quei tedeschi, chissà come saranno inferociti, incominciano a sparare forte. Una granata arriva sulla chiesa del Borgo con un colpo tremendo; si conficca in un pilastro in alto senza trapassarlo e si apre come i petali di un fiore in 5 parti. Molte altre granate giungono in centro. Notizie fresche riferiscono che gli alleati abbiano già fatto una testa di ponte sul fiume e si spera che stanotte passeranno di là con molte forze. Intanto l’artiglieria pesante inglese si apposta nelle vicinanze delle Creti ed incomincia un fuoco intensissimo a cui i tedeschi rispondono debolmente. Speriamo che questa sia l’ultima notte che dà ancora paura. Ma ormai il più è passato. Ci stendiamo sui nostri giacigli, stanchi, spossati anche dalla commozione, ma presto tutti chiudiamo gli occhi».
*I soldati alleati che entrarono in Budrio appartenevano alla 2a divisione neozelandese, facente parte della 8a armata britannica. La loro divisa era caratterizzata da un cappello particolare a tesa larga sormontato da una cupola rotondeggiante, che poteva assomigliare a un catino, o a una scodella rovesciata.
Leggi anche: